I turbamenti del giovane Leonardo: un ritratto dalla A alla (gen) Z

da | Set 3, 2025 | MONDOVISIONE

L’adolescenza cinematografica non è soltanto un infinito serbatoio di riflessioni esistenziali, e più sono radicate in uno spazio e in un tempo preciso più tendono all’universale, ma anche la chirurgica fotografia di quanto i divari generazionali diventino più profondi col passare degli anni: un cinquantenne di oggi avrebbe potuto capire la mentalità di suo nonno, un ventenne di oggi fatica a parlare con un trentenne, figurarsi con i propri genitori.

Nel suo esordio alla regia, il ventottenne palermitano Giovanni Tortorici, prodotto da Luca Guadagnino di cui è stato assistente in «We are who we are», mette in scena «Diciannove», coming of age errante presentato a Venezia 81 nella sezione Orizzonti; il «suo» Leonardo (guai a chiamarlo Lele) è l’esordiente Manfredi Marini, a suo agio nei panni del diciannovenne siculo che migra da una città all’altra alla ricerca del giusto orientamento scolastico e della propria identità.

L’impronta autobiografica è dichiarata: il regista ha vissuto a Siena e la stanza del film è proprio quella in cui ha soggiornato da studente fuori sede, così come la casa di Palermo è quella dei suoi diciannove anni; Giovanni voleva fare lo scrittore, come Leonardo, prima che il cinema «gli tagliasse la strada» ed anche lui aveva/ha una predilezione per Leopardi.

Il montaggio sgrammaticato di Marco Costa e le musiche che mescolano al barocco i primi pezzi trap di Ghali e Tedua, ben rappresentano i turbamenti e le nevrosi di questo giovane Werther di provincia.

TRAMA

Leonardo parte per Londra scortato dalla tipica madre meridionale, soffocante e iperprotettiva ma, dopo poche settimane ospitato dalla sorella (Vittoria Planeta), capisce subito che la business school britannica non fa per lui, quindi, consumate delle serate alcoliche ad alto tasso erotico, opta per la facoltà di lettere a Siena.

Amante dei letterati italiani del Trecento, e profondamente critico nei confronti di tutto il Novecento (soprattutto le avanguardie), Leo entra in conflitto con un docente che insegna Dante in modo antiquato e convenzionale, arrivando al punto di rifiutare un 26 e di scrivere un’invettiva contro di lui, prontamente ritirata per non incorrere in richiami o espulsioni.

Isolatosi in camera con tanto di fornelletto a gas da campeggio e libri rari acquistati su e-bay, si dà a uno studio «matto e disperatissimo» come il suo idolo di Recanati, snobbando le coinquiline con le quali finirà per salutarsi a stento, ma anche tenendosi in disparte dai gruppi di studio che lo vorrebbero coinvolgere in uscite serali.

La sua autoreclusione, in una Siena bellissima ma ripresa per lo più d’Inverno o all’alba, con Piazza del Campo deserta e la Torre del Mangia che sembra la quinta di un teatro abbandonato, lo spinge sull’orlo della psicosi e d’una omosessualità più estetizzante che concreta.

La parentesi meneghina, col cugino laureando in Giurisprudenza alla Bocconi, fa da contraltare al ritorno estivo a Palermo, selvaggio e marino come si conviene, ma il punto più interessante della pellicola si raggiunge quando il Nostro viene invitato a cena da un amico di famiglia a Torino e subisce una sorta di interrogatorio da un intellettuale di mezza età che proprio non capisce le sue tendenze reazionarie.

Il film, apertosi col crudo primo piano d’una epistassi, finisce con un auto-sgambetto ed un sorriso, omaggio alla leggerezza della Nouvelle Vague ma anche segno di una riappacificazione con un’età «scorticata» e ribelle.

UNA QUIETA E DOLCE MALINCONIA…

Non è un capolavoro questo «Diciannove» di Tortorici ma con i suoi inserti animati, le sfocature, gli zoom in salsa vintage, gli split screen e i freeze frame, ma soprattutto attraverso una sceneggiatura che ritrae tutto il disagio e l’inadeguatezza della generazione Z, riesce a parlare dell’adolescenza in quella sua ricerca d’assoluto che la rende la stagione più complessa e fertile della vita di ognuno di noi

Leonardo beve senza metodo e con violenza autodistruttiva (arriva a sfiorare il coma etilico a Milano), si bacia con ragazze che approccia e poi abbandona senza concludere niente, studia in solitudine critici e autori fuori dalla bibliografia dell’Ateneo per il semplice gusto di contraddire i suoi insegnanti, ma in questa arroganza (che lo spingerà a criticare Pasolini e a ignorare Gadda) c’è l’aspirazione a una purezza, di stile e morale, che lo riscatta da qualsiasi sbaglio e non lo espone al giudizio moralista dei benpensanti.

Guadagnino ha insegnato al suo adepto che un attore può nascondersi nei suoi personaggi mentre un regista deve sempre giocare allo scoperto, e nessuno è più scoperto di Leonardo che si masturba guardando Salò (anche se ne criticherà aspramente il regista), sbircia le nudità censurate di Justin Bieber e arriva al punto di prostituirsi quasi per gioco su un sito di annunci solo per acquistare l’edizione costosa di un volume di cui ha bisogno.

La sua ansia di purezza morale, che lo porta a venerare i trecentisti per la loro ricerca formale sulla lingua, è in realtà il rifiuto della trasgressione, letteraria ed esistenziale, della seconda parte del secolo trascorso perché, come ha dichiarato Tortorici stesso, la repressione dei propri istinti e delle proprie passioni, porta alle ideologie di destra e all’esigere che anche gli altri si reprimano e vivano in modo frustrato.

Nell’incomunicabilità e nell’anomia degli attuali adolescenti (Giovanni sta girando un lungometraggio con dei sedicenni) si nasconde il rifiuto di una trasgressione ormai divenuta norma sociale, ricerca di mercato, strumento di controllo; Leonardo proprio non capisce perché la migliore cultura italiana ce l’abbia tanto col concetto di morale, e questo perché il suo doloroso isolamento e la sfida al mondo accademico hanno il rigore di chi ricerca sé stesso senza appaltatori né guide.

Con la faccia alla Lou Castel e il corpo nervoso alla Schiele, Leo è l’irrisolto simbolo d’una irrisolta primavera, il perfetto adolescente caravaggesco che sarebbe tanto piaciuto proprio al Pier Paolo Pasolini dei primi componimenti poetici: alla fine di tutto il trambusto, ormonale e spirituale, non resta che, come scriveva Leopardi «una quieta e dolce malinconia».

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