Bergman: l’«Io» in Persona

da | Giu 18, 2025 | MONDOVISIONE

Sono passati quasi sessant’anni dal capolavoro indiscusso del regista svedese Ingmar Bergman, pellicola sperimentale che destò scalpore in uscita e che divenne nei decenni successivi punto di riferimento assoluto per autori del calibro di David Lynch, oltre che pietra miliare estetica per il tema del doppio.

«Persona» (1966), girato in una fase di grande crisi esistenziale per Bergman, ci regala uno dei duetti più influenti e spiazzanti della storia del cinema (post)moderno, quello fra Bibi Anderson e Liv Ullman, entrambe compagne nella vita del regista oltre che attrici, e qui canonizzate da un serrato montaggio di luci ed ombre e da una fitta serie di primi piani, valorizzati dall’iconico bianco e nero di Sven Nykvist (due Oscar, proprio con Bergman).

A mediare fra Alma (Bibi Anderson) ed Elizabeth Vogler (Liv Ullman) c’è Margareth Krook, la dottoressa interprete della più celebre diagnosi terapeutica della settima arte: «Tu vuoi essere, non sembrare di essere […] questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità.»

Rivedere «Persona», a quasi sessant’anni dalla sua uscita, significa fare i conti con un seminale capolavoro di incomunicabilità, veggenza, anticipazione politica e linguaggio subliminale, con un epilogo che non può che restare aperto, come la tematica centrale dell’opera: la condizione umana.

TRAMA

Elizabeth Vogler è una celebre attrice che, durante la messa in scena di un’«Elettra», ha prima una crisi di riso incontrollato, quindi, viene colta da afasia: portata in ospedale se ne certificheranno le perfette condizioni fisiche, deducendo che il mutismo è una libera scelta e non una patologia.

A questo punto, la dottoressa che l’ha presa in cura, valutando il potere inibitorio della struttura medica sul malessere esistenziale della paziente, la indirizzerà nella propria casa al mare, in compagnia di Alma, una giovane ma tenace infermiera. Fra le due nascerà un rapporto simbiotico, nonostante il reiterato silenzio di Elizabeth, con l’infermiera pronta ad aprirsi anche su aspetti scabrosi e inconfessabili della propria esistenza.

Dopo aver letto uno scritto dell’attrice indirizzato proprio alla dottoressa, in cui la prima ridicolizza le sue confessioni intime, Alma si scaglierà ferocemente contro il proprio alter ego, scatenando istinti a lungo sopiti e, dopo essere stata scambiata dal marito di Elizabeth per sua moglie, e aver giocato la parte fino in fondo, le due si scinderanno riprendendo le reciproche vite/maschere.

Fra immagini sperimentali, scenografie spoglie e dialoghi trasgressivi (per il periodo storico di riferimento), «Persona» si dimostra l’opera più complessa e polisemica del maestro svedese, e la mimica di Bibi/Liv uno dei vertici del cinema esistenzialista.

«DRAMATIS PERSONA»

Persona, aka «maschera teatrale», aka «dramatis persona», secondo la locuzione latina di riferimento, inizia con una serie di immagini apparentemente slegate: neve (la Svezia), un agnello sgozzato e dei polsi inchiodati (la religione), un ragno (il concetto di divinità), un pene eretto (la sessualità), disegni animati e film muti (il proto-cinema) ed un bambino che si alza da un letto d’ospedale per provare ad accarezzare il volto di Alma riflesso su uno schermo, e successivamente trasformato in quello della Vogler.

Noi ancora non sappiamo niente della trama ma le immagini, parzialmente riproposte per ben tre volte durante la pellicola (una vera e propria scansione teatrale), ci anticipano il complesso di Elettra alla base dell’opera.

Alma ha abortito ed Elizabeth non riesce ad amare un figlio che la venera ma che lei ha concepito solo per rispettare delle convenzioni sociali in cui non crede più, o in cui non ha mai creduto; per sfuggire alle maschere che il vivere civile ci impone possiamo rifugiarci, pirandellianamente, nel suicidio o, à la Bergman, nel silenzio ma alla fine, parafrasando il grande sociologo Goffman, anche il rifiuto di un ruolo, o di tutti i ruoli, diviene un ruolo.

Come sosteneva Moravia, nella sua critica al film, forse «Persona» è la storia di un amore non corrisposto da un soggetto forte (Elizabeth) nei confronti di uno più debole (Alma), la latente espressione di una bisessualità frustrata che sfocia in episodico libertinaggio (l’orgia cui ha partecipato l’infermiera e che racconterà con dovizia di particolari), ma di sicuro si tratta di una mancata adesione, da parte di entrambe le protagoniste, a quelli che erano i valori femminili coevi di riferimento (l’Occidente pre-68).

Anche esteticamente, i pantaloni e i ray-ban neri, resi ancor più rivoluzionari dal bianco e nero, contro le sobrie gonne tubolari al ginocchio, sembrano contraddire la moda anni Sessanta e l’equivalente doppio cinematografico, ma i vertici figurativi di «Persona» si raggiungono col monologo, identico, pronunciato da entrambe le donne inquadrate in rapida successione, o nei volti che si sovrappongono divenendo un’unica, leggendaria, immagine.

Più sottile, ma non meno significativa, è la critica sociale che da una parte vede un’esponente della piccola borghesia svedese, alacre lavoratrice e custode indiretta delle tradizioni nazionali, e dall’altra l’attrice snob, intellettuale arricchita dedita a performare un anticonformismo di maniera: entrambe odiano le maschere che la società ha imposto loro, come a significare che la vera ribellione non passa attraverso la lotta di classe marxista o il conflitto intergenerazionale situazionista, ma è insita in ognuno di noi, e quindi ineludibile.

Le scenografie inesistenti, e l’assenza di orologi o calendari, contribuiscono all’atemporalità di questo conflitto esistenziale, come la geolocalizzazione dell’isola svedese di fronte al mare sembra essere l’unica concessione (auto)biografica di una regia altrimenti asettica.

Alma che si rivolge direttamente agli spettatori ed Elizabeth che dirige l’obiettivo di una macchina fotografica verso la camera, come lo sguardo del pittore e della corte reale ne «Las Meninas» di Velasquez, sono la distruzione del concetto di rappresentanza e il segno metacinematografico di Bergman, che culmina nella pellicola che va a fuoco e si vela prima di essere sostituita.

L’ironia e poi il silenzio, come successivi momenti di smascheramento sulla scena per l’attrice Vogler, ci riportano a quell’episodio ne «La Peste» di Camus, in cui durante l’ennesima replica dell’Orfeo di Gluck, il cantante crolla in avanti colto dal male oscuro: «la peste sulla scena, nelle spoglie di un istrione disarticolato e nella sala tutto un lusso inutile, sotto forma di ventagli dimenticati e di trine abbandonate sul rosso delle poltrone».

Bergman ha introdotto il concetto di crisi nel cinema postmoderno, inoculando la malattia della verità sotto la maschera, non limitandosi a distruggere la sospensione d’incredulità ma, attraverso il tema del doppio, frantumando la quarta parete e il limite della macchina da presa: forse solo nell’incomunicabilità siamo liberi di essere soli, e nel silenzio, di sottrarci agli infiniti doppi (anche digitali) che ci abitano.

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