Presentato a Venezia nel 2001, dopo che la sua sceneggiatura aveva già vinto nel 1999 il Premio Rai International, «L’uomo in più» (2001), primo lungometraggio per il trentunenne paolo Sorrentino, incasserà tre candidature ai David di Donatello e il nastro d’argento come miglior film esordiente.
Opera personalissima, di cui il regista firmerà anche soggetto e sceneggiatura, «L’uomo in più» fonda il proprio andamento ellittico sulla fotografia stralunata di Pasquale Mari (collaboratore, fra gli altri, di Ozpetek e Bellocchio) e sulle scenografie di Lino Fiorito, che mettono in scena una Napoli notturna e livida, lontanissima sia dagli stereotipi nazionalpopolari che dalle consuete rappresentazioni cinematografiche.
Valore di merito alle prove di un Toni Servillo già perfettamente in sintonia con l’universo sorrentiniano, fuori dalle righe, istrionico e disperato, ma anche di Andrea Renzi, timidamente e volutamente sottotono, e ai comprimari Beppe Lanzetta e Ninni Bruschetta (il Duccio di «Boris»), per un cast in grado di varare l’autorialità di una delle più importanti firme del cinema italiano, senza forzature né eccessi di stile.
Al successo indie dei californiani Cake, che reinterpretavano «I will survive» in chiave alternative, i brani «La Notte» e «Lunghe notti da bar», scritti da Pasquale Catalano e Beppe Servillo (Avion Travel) e cantate proprio dal fratello Toni, chiuderanno il cerchio sul binomio tutto italiano fra calcio e musica leggera, apparenti vertici di un intrattenimento che in realtà nasconde drammatici chiaroscuri e personalissime tragedie.
TRAMA
Napoli anni Ottanta: il cantante neomelodico Tony Pisapia è all’apice del suo successo e passa le proprie giornate (o meglio, notti) fra cocaina, discutibili avventure e concerti che lo portano addirittura ad esibirsi di fronte a Frank Sinatra, ma quando una minorenne lo denuncerà per violenze, nonostante ne esca completamente prosciolto, non riuscirà più ad ottenere validi contratti né scritture significative.
Suo omonimo, anche se leggermente più giovane, Antonio Pisapia è invece l’ispirato stopper di un Napoli che punta alla Uefa, anche grazie a un suo leggendario gol in semirovesciata, ma che a causa di un infortunio ai legamenti del ginocchio, dovrà dire addio al mondo del calcio, prendendo però il patentino da allenatore che lo porterà a mendicare un ruolo societario che gli verrà ripetutamente negato.
I destini dei due Pisapia si intrecceranno in una tragica notte e all’intenso monologo del cantante nella trasmissione «Confessioni pubbliche», seguirà la vendetta per la morte dell’omonimo, con tanto di rocambolesca fuga e arresto.
Il calcio-scommesse e il tritacarne del mondo dello spettacolo fanno da sfondo alle vicende dei due protagonisti, diversissimi dal punto di vista attitudinale, ma con una dimensione eroico-individuale incapace di adattarsi a qualsiasi tipo di compromesso, fino all’(auto)combustione.
IN PIÚ O DI TROPPO?
Il film si apre con una citazione di Pelè («il pareggio non esiste»), ma anche lo schema a quattro punte col fantasista in grado di spaziare è un’invenzione di Ezio Glerean, allenatore del Cittadella anni Novanta, così come la figura del «Molosso», ex tecnico di Pisapia, riprende quella di «Petisso», in grado di vincere uno scudetto col Bologna nel 68-69; persino Tony Pisapia diverrà il Tony Pagoda del romanzo del 2010 «Hanno tutti ragione», scritto proprio da Paolo Sorrentino e finalista al Premio Strega.
La (cit)azione registica fonda e dilata un immaginario in cui cinema e realtà si sovrappongono, come la dedica a Maradona al momento del ritiro dell’Oscar per «La Grande Bellezza» si completerà poi nel film «È stata la mano di Dio», poiché a distinguere un buon regista da un autore sono lo stile e un mondo di riferimento, al netto di possibili errori e idiosincrasie.
«La tattica è il passaggio dal caos giovanile alla maturità» dichiarava Sorrentino in un’intervista rilasciata a Massimo Coppola, ed è proprio sul piano tattico che i due Pisapia falliscono clamorosamente: entrambi incapaci di gestire un vita sentimentalmente stabile e prigionieri di un’idea di libertà che porta il cantante a bruciare il successo in modo irresponsabile, e il calciatore a vivere le proprie ossessioni dimenticando, come gli verrà detto senza mezzi termini dal proprio presidente, che «il calcio è essenzialmente un gioco e lei è un uomo triste».
«L’uomo in più» diviene la metafora di un’eccellenza, artistica e tecnica, che questo paese dedito alla mediocrità non può permettersi, al punto di dimenticare con facilità miti e promesse, incapace di riabilitare o perdonare chiunque abbia cercato la propria voce al di là del conformismo e delle rassicurazioni, e la Napoli anni Ottanta messa in scena da Mari e Fiorito, sparata a tutto volume fra night e cocaina, successo facile e salotti da gossip, col suo contraltare di disperazione e tragedie, diviene l’emblema di quest’ambivalenza tricolore.
La morte del fratello di Tony, ucciso da un polipo gigante quando entrambi erano molto piccoli e in immersione, si cristallizza nella nemesi che lo porterà a vendicare il suo omonimo, trasformando il senso di colpa in crimine e il gioco di sguardi fra i due, in un notturno mercato del pesce, ci ricorda che la coscienza oscura d’Italia non è solo quella dei perdenti ma anche quella degli ex-vincitori, incapaci di rassegnarsi alla normalità o a una vita da comprimari.
Il personaggio di Antonio Pisapia sembrerebbe essere ispirato alle vicende di Agostino di Bartolomei, storico capitano della Roma morto suicida prima di arrivare ai quarant’anni, mentre quella di Tony Pisapia alle parabole esistenziali di Fred Bongusto e Franco Califano, ma ciò che resta di questa opera prima è il coraggio di una sceneggiatura già matura, col suo mix di cinismo, ironia nera e finta leggerezza, e un immaginario visivo capace di sovvertire luoghi comuni e stereotipi, costruendo un mistero non prigioniero della retorica che spesso inquina anche le più colte rappresentazioni di quello che Carmelo Bene definiva «Il Sud del Sud dei santi».