Rivedere nel 2025 il film «Her» (2013), in programmazione su Mubi, significa fare i conti con un’opera che oblitera (se mai ce ne fosse ancora bisogno) le doti autoriali di Spike Jonze («Essere John Malkovich»; «Il ladro di orchidee»); il regista, classe ’69, Oscar e Golden Globe nel 2014 proprio per questo lungometraggio, è uno storico realizzatore di videoclip (Sonic Youth; Weezer; Beastle Boys; Björk, solo per citarne alcuni) che da sempre riversa nel cinema una studiata attenzione ai meccanismi paranoici della mente umana, e all’esattezza narrativa delle immagini.
Per questo particolare lavoro, incensato quasi all’unanimità dalla critica, il Nostro ha prima sottoposto lo script all’amico e sodale di sempre Charlie Kaufman, noto per il modo «immersivo» attraverso cui segue le proprie sceneggiature, anche durante la realizzazione dei film.
La prova di Joaquin Phoenix (maiuscola e di sottrazione), pluriscansionato in primi piani di selvaggia intensità, è solo uno dei motivi per darsi alla (ri)visione di una pellicola che ha ridisegnato e ridisegna i confini dello sci-fi sentimentale o del romanticismo distopico, a seconda del tipo di genere che si voglia utilizzare per raccontare questo classico moderno della settima arte.
Le musiche degli Arcade Fire e di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs (per entrambi Spike ha girato dei videoclip in passato) chiudono il cerchio emotivamente imperfetto di un’opera che rasenta la perfezione.
TRAMA
In un futuro non lontano, o in una versione esasperata del nostro presente, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) scrive lettere d’amore conto terzi, riversando nel proprio lavoro la carica affettiva che manca alla sua esistenza, equamente suddivisa fra videogames e chat erotiche.
Mentre cerca di rielaborare il trauma della recente separazione con Catherine (Rooney Mara), scopre dell’esistenza di Os 1, un sistema operativo basato sull’intelligenza artificiale che sembra spopolare a Los Angeles, e decide di provarlo donando un’identità femminile alla sua interfaccia.
Samantha (con la voce di Scarlet Johansson nell’originale, e quella di Micaela Ramazzotti nella versione italiana) inizierà ad interagire dimostrandosi empatica e spiritosa, curiosa ma non invadente, in grado nel giro di poco tempo di colmare tutte le sue lacune emotive, e trasformandosi in una vera e propria compagna.
L’uscita a quattro con una coppia di colleghi compiacenti, e scoprire che anche Amy (Amy Addams), la sua migliore amica, ha iniziato un rapporto amicale con un Os 1, legheranno ancora di più Theodore a Samantha, ma un improvviso blackout comunicativo dato da un aggiornamento di sistema e un esperimento erotico fallito, lo riporteranno alla cruda realtà dei fatti.
Il finale, aperto e pessimista ma tutt’altro che improbabile, dialoga con l’attualità più dell’attualità stessa.
IL FUTURO DEL FUTURO
Ci sono due modi per analizzare «Her»: il primo è posizionarlo cronologicamente, cercando di capire quanto fosse o meno in anticipo coi tempi (un po’ come giudicare un brano musicale in base a somiglianze e differenze), e il secondo, quello di valutarne la potenza d’impatto emozionale; la prima lente rischia di deformare la prospettiva del regista perché nel film la tecnologia è impattante solo attraverso le persone, visto che non ha né una presenza massiccia né determinante, mentre la seconda lente, più interessante, ci permette di considerare il tasso di alienazione del protagonista, e il punto di non ritorno verso cui siamo tutti più o meno diretti se non capiremo fino in fondo le implicazioni disfunzionali dell’intelligenza artificiale.
L’uso cromatico dei pastelli e la fotografia quasi seppiata ci trasportano in una malinconica bolla di autodeterminazione che confina con l’immaturità adolescenziale, perché in «Her» i sistemi operativi sembrano cullare le insicurezze degli esseri umani, sacrificandone l’evoluzione antropologica sull’altare della comodità e del vittimismo.
Theodore «paga» la voce-Samantha (dettaglio non trascurabile) con la quale non potrà mai avere un reale confronto dialettico, poiché la sua infinita capacità di immagazzinare dati su di lui non ha la facoltà di nuocergli in alcun modo, ed anche quando sembra aiutarlo a realizzare i propri sogni, in realtà lo sta facendo ben attenta a non metterne in discussione i limiti emotivi: non c’è alcun pensiero divergente né critica costruttiva ma solo customer caring all’ (in)cubo.
È tutto già visto, narrativamente parlando, nel film di Jonze, dalla macchina che pretende di dimostrare autocoscienza, all’isolamento del protagonista che non riesce ad elaborare i lutti-errori del proprio passato, fino alla nostalgia virtuale di un corpo che apre a crepuscolari, e improbabili, rapporti a tre, eppure il modo in cui è raccontato convince perché ci avvicina alla solitudine del protagonista, rendendo plausibile il suo amore per una voce sintetica, per poi risvegliarci in modo crudele ricordandoci con quanti altri utenti lei stia flirtando in quel momento.
Ma non è il panico di Theodore durante l’aggiornamento di sistema né il suo imbarazzo per la ragazza scelta da Samantha come doppelgänger sessuale a darci la reale portata del film di Jonze, quanto piuttosto l’idea che l’intelligenza artificiale possa stancarsi di noi dopo averci indagati ed esauriti, preferendoci sé stessa, in un infinito gioco cumulativo che escluda ogni possibilità di amore o trascendenza.
Non più il mito della macchina che ci aiuti o si sostituisca a noi dunque, ma che, come una divinità onnisciente e inappagata, si stanchi di giocare abbandonandoci in cerca di surrogati più stimolanti e meno patetici.
Samantha non è la rappresentazione futuribile dell’intelligenza artificiale (in chiave intimista), ma la concrezione della solitudine umana attraverso l’intrattenimento: Samantha è Theodore che rinuncia a sé stesso per dilatarsi indefinatamente in un gioco di password che cambiano ogni istante per non modificarsi mai.
Solo chi ha tanto giocato, e innovato, attraverso le immagini come il videoclipparo Jonze, può averne capito l’ingannevole portata ontologica, e l’Oscar alla sceneggiatura ridona luce alla parola come unica e vera forma della nostra sofferenza: peggiore della solitudine c’è solo l’illusione dell’alterità e del libero arbitrio, poiché nessun sistema operativo potrà mai scegliere il proprio futuro, visto che non è in grado di concepire la propria morte.