Di recente, sia da un punto di vista politico che giornalistico, il nucleare sembra essere tornato di moda: superato l’orrore di Hiroshima e Nagasaki (ma anche di Chernobyl e Fukushima), che da molti anni ha ormai calcificato un tabù, rafforzato in Italia dal referendum del 1987, si sta parlando addirittura di un «Nuovo Rinascimento del Nucleare», con gli occhi puntati al modello francese e con motivazioni che rilanciano l’uranio per ovviare alla dipendenza dalle energie fossili, ma anche per ragioni strettamente legate all’inquinamento ambientale.
Storicamente, è servito da freno il Trattato di Non Proliferazione (Tnp), concepito dall’Onu nel 1968, che ha configurato tre tipi di paradigmi: 5 nazioni con ordigni atomici, impegnate a dismetterli, quattro (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) che hanno abbandonato tale patto nel tempo, e la stragrande maggioranza che si attiene agli accordi sottoscritti accettando i periodici controlli degli ispettori della Aiea, l’agenzia atomica delle Nazioni Unite.
Rispetto al 1986, quando si contavano ben 70400 testate complessive nel mondo, ad oggi si arriva «appena» a 12500, ma questo è in larga parte dipeso dal reciproco disarmo che Usa e Urss operarono durante la guerra fredda, concordando di svuotare i rispettivi arsenali per depotenziare il rischio d’un nuovo conflitto, ma anche per ragioni di sicurezza internazionale.
Attualmente, dopo un estenuante e più che decennale braccio di ferro diplomatico e, considerate le reiterate minacce di Putin ad utilizzare ordigni nucleari contro l’Ucraina, l’unico importante trattato sulle armi ancora in vigore fra Stati Uniti e Russia è il New Start, non più considerato valido da Mosca dal 2023, e comunque in scadenza nel 2026.
IL REFERENDUM ANTINUCLEARE IN ITALIA NEL 1987
Ha senso ricordare, per ciò che concerne il caso italiano, l’8 e il 9 novembre 1987, quando milioni di connazionali si recarono alle urne per votare 5 referendum abrogativi, tre dei quali riguardavano proprio la situazione nucleare interna.
Il Belpaese contava a quei tempi quattro centrali elettronucleari: quella di Latina, da 210 Mwe con reattore Magnox, attiva dal 1964; quella di Gagliano di Sessa Aurunca (Ce), da 160 Mwe con reattore nucleare ad acqua bollente (BWR), anch’essa attiva dal 1964 ma già spenta prima del referendum; la centrale Enrico Fermi di Trino (Vc), da 270 Mwe, con reattore nucleare ad acqua pressurizzata (PWR), attiva commercialmente dal 1965; la centrale di Caorso (Pc), da 860 Mwe, con reattore BWR, attiva solo dal 1981 ma di seconda generazione.
Un forte impulso al nucleare nasceva sin dai primi anni Settanta, per l’improvvisa impennata dei prezzi d’importazione dei prodotti petroliferi a causa della questione arabo-palestinese, fattore che aveva condotto all’istituzione del PEN (Pieno Energetico Nazionale) nel 1975, che «prevedeva la realizzazione di ulteriori otto unità nucleari su quattro nuovi siti».
L’incidente di Three Miles Island (Pennsylvania, 1979), che pur senza vittime con la fusione parziale del nocciolo non aveva di certo contribuito alla popolarità del nucleare (inibendo in Italia la riaccensione di Garigliano, il varo di Caorso e la costruzione della centrale di Montalto), fu solo un anticipo di quanto accadde dopo Chernobyl (26 aprile 1986), con i radicali che raccolsero ben un milione di firme e tutti i movimenti ambientalisti coagulati in unico soggetto politico: la Federazione delle liste verdi.
Alla vigilia del referendum, la comunità scientifica era divisa fra chi temeva pesanti conseguenze economiche, sociali e industriali per l’abbandono del nucleare, e chi invece riteneva l’incremento delle rinnovabili e adeguate politiche di risparmio energetico delle alternative preferibili al culto dell’uranio; in un contesto politico a dir poco frammentario (dimissioni di Craxi; maggioranza Dc; nuove elezioni a giugno), il sì fu perorato sia dalla Democrazia Cristiana che dal Partito Comunista, ansiosi di assecondare un elettorato sotto choc per il post-Chernobyl.
Il trionfo quasi plebiscitario del sì (con un’affluenza alle urne oggi impensabile) portò, fra il 1987 e il 1990, alla dismissione delle centrali nucleari ancora attive, nonostante non fosse questo lo scopo in senso stretto del referendum, e all’acquisto, nel 1999, da parte della SOGIN (Società Gestione Impianti Nucleari) delle quattro ex-centrali, per l’operazione di decommissioning.
Fu quello il canto del cigno della produzione elettronucleare italiana.
L’ATOMO FUGGENTE
Le recenti affermazioni del senatore Calenda, critico nei confronti della Transizione 5.0 «perché nessuno si occupa della parte implementativa, e cioè di seguirne il percorso», ma soprattutto favorevole a un nucleare non fondato sugli SMR (small modular reactor) ma sulla quarta generazione a quattro reattori, in grado di produrre quanto tutto il fotovoltaico, e impiantabile nei luoghi in cui già c’erano centrali o si stava pianificando di farle, hanno riacceso il dibattito sulla liceità e/o convenienza di tale fonte energetica.
Ma quali sono, a grandi linee, i pro e i contro del nucleare?
CONTRO:
-) l’uranio è (anche intuitivamente) una fonte non rinnovabile;
-) i costi d’investimento iniziali sono tutt’altro che esigui;
-) lo smaltimento delle scorie resta un problema non trascurabile, sia dal punto di vista ambientale che sociale;
-) il rischio di un incidente, per quanto fortemente diminuito grazie agli investimenti sulla sicurezza degli ultimi anni, è pur sempre tangibile;
-) i lunghi tempi di costruzione (10-15 anni se tutto fila liscio), non rendono il nucleare una soluzione a breve termine;
-) la localizzazione dei siti adeguati: si tratta di un procedimento che deve tenere conto sia della sismicità dell’area che della resistenza delle popolazioni locali;
-) le centrali producono solo energia elettrica e non gas;
-) ogni centrale nucleare è, potenzialmente, un obiettivo sensibile per attacchi terroristici e questo vuol dire che l’area andrebbe ragionevolmente militarizzata (con i relativi costi).
PRO:
-) il nucleare ha bassissimi (se non nulli) tassi di emissione di anidride carbonica;
-) al di là del costo d’impresa iniziale, la lavorazione dell’uranio è decisamente meno dispendiosa rispetto a quella dei combustibili fossili;
-) le centrali nucleari ci renderebbero indipendenti dal giogo di petrolio e gas, senza dimenticare che gli scenari d’approvvigionamento dell’uranio (principalmente Canada e Australia) sono sicuramente meno rischiosi dal punto di vista geopolitico, rispetto a quelli d’estrazione delle energie fossili (Libia, Russia);
-) sul piano occupazionale ogni centrale nucleare può generare, in media, più di 500 posti di lavoro;
-) il ciclo medio di vita di un impianto è molto lungo, con standard di sicurezza migliorati esponenzialmente negli ultimi tempi, e con una densità energetica altissima (da un chilo di uranio si ricava l’equivalente di 1200 tonnellate di gas o 3000 tonnellate di carbone).
Al di là degli oggettivi rischi e della variabile (dis)umana, con la sua endemica pulsione all’autodistruzione, va capito se la transizione ecologica sia anche ideologica o se sia possibile inaugurare una narrazione sul nucleare scevra dalle scorie retoriche (quelle sì non smaltibili), che da sempre ne avvelenano un serio discorso tecnico-scientifico, ma anche un equivalente, e consapevole, dibattito sociale.