La ragazza con l’ago: ag(i)ografia del male

da | Mar 5, 2025 | MONDOVISIONE

Un lungo ago di metallo su sfondo nero è la locandina de «La ragazza con l’ago» (Pigen Med Nalen), una coproduzione danese, polacca e svedese, terza fatica dello scandinavo Magnus Von Horn, presentato in anteprima il 15 maggio 2024 al 77esimo Festival di Cannes, candidato come miglior film straniero all’82esimo Golden Globe Awards e alla 97esima cerimonia degli Academy Awards; ago la cui cruna è alla base della celebre parabola evangelica e che in questo caso ambiguamente rappresenta sia uno strumento di coesione (la cucitura) che la separazione fra il Bene e il Male, vasi comunicanti del chiaroscuro del libero arbitrio.

Vic Carmen Sonne presta gli occhi perennemente stupiti alla protagonista Karoline, mentre Tryne Dyrholm (eccellente in «Nico, 1988») è Dagmar, coprotagonista e algida incarnazione della malvagità più assoluta, anche se a farla da padrone è la fotografia bergmaniana del giovanissimo Michael Dymek (classe ’90), in grado di donare eleganza e profondità ai bassifondi di Copenaghen.

Il soggetto è (più che liberamente direi pedissequamente) ispirato alle gesta criminali di Dagmar Overbye, infanticida danese che fra il 1913 e il 1920 uccise fra i nove (dimostrati) e i venticinque (sospettati ) bambini, arrivando a confessarne 16 e subendo la condanna a morte, poi commutata in ergastolo grazie all’intercessione del re, fino a morire in carcere a soli quarantadue anni.

TRAMA

Nella Copenaghen dell’immediato dopoguerra (1919), Karoline è l’operaia di un’azienda tessile che produce divise militari e che, a causa del mancato certificato di morte del marito, ufficialmente disperso, non può chiedere l’indennizzo e quindi subisce uno sfratto.

L’inizio della relazione con Jörgen, proprietario della fabbrica in cui lavora, sembra ridarle speranza ma una volta rimasta in cinta e presentata alla famiglia, capisce subito che la possibile futura suocera (reale intestataria dell’intero patrimonio), non acconsentirà mai al matrimonio con il figlio il quale, pavidamente, oblitera la decisione materna per non perdere tutto.

La riapparizione di Peter, il marito disperso, ormai impotente e con un’evidente malformazione al volto che lo confina professionalmente in un circo, e la perdita del proprio lavoro per evitare lo scandalo, spingeranno Karoline a tentare l’aborto con un lungo spillo in un bagno frequentato da sole donne, ma qui la decana Dagmar le impedirà il gesto, portando lei e la bambina in un negozio di dolciumi in cui gestisce anche una rete clandestina di adozioni.

Le due donne diventeranno amiche e Karoline deciderà di pagare l’adozione della propria figlia svolgendo la funzione di balia per Erena (la bambina di Dagmar), un’amicizia che purtroppo degenererà nel tossico consumo di etere.

Dopo aver scoperto che Dagmar uccide gli infanti invece di darli in adozione, e quando la sua ex-collega che aveva fatto da tramite proprio per una di esse, reclamerà, pentita, indietro il bambino, interverrà la polizia e, mentre l’assassina sarà assicurata alla giustizia, Karoline tenterà invano il suicidio.

L’epilogo velato d’ottimismo non smorza minimamente né i toni cupi né la filosofia negativa di Dagmar, per una pellicola che come rigore estetico e algida messa in scena ricorda l’iconoclastia di Lars von Trier.

C’É DEL MARCIO IN DANIMARCA

La deformità maschile di Jörgen, che è claudicante e per tanto inabile alla leva, e quella di Peter, ormai un freak dal volto sfigurato, fanno da contraltare a quella esistenziale delle due donne: obbligata e fatalista quella di Karoline, crudele e strutturata quella di Dagmar, per un’umanità che sembra ormai distante da sé stessa, ben oltre sia il dolore che la compassione.

Fra la fiaba gotica e il paesaggio esistenzialista, ben rappresentato dall’iniziale e baconiano «morphing» di volti, «La Ragazza con l’ago» non è solo la lotta disperata di una donna cui la vita ha sottratto tutto, ma anche una riflessione sulla maternità vissuta più come uno stigma sociale che non come una scelta consapevole e gioiosa.

In un’epoca in cui la filosofia gender ha fatto dell’orientamento sessuale l’unica trincea politica degna di essere vissuta e raccontata, il coraggioso film di Magnus Von Horn ci ricorda che esistevano ed esistono le classi sociali e che la propria ricchezza influisce eccome non solo sull’intimità, ma anche sulle scelte di vita legate alla famiglia e alla decisione di avere dei figli.

È vero che la figura di Dagmar poteva essere meglio raccontata o più approfondita, ma proprio il mistero che si cela dietro la sua mostruosità ce la rende universale e non confinata alle gelide terre di Danimarca, così come la meschinità di Jörgen e le mediocri ambizioni di Karoline abbattono ogni manichea suddivisione fra buoni=poveri e ricchi=cattivi, al punto che l’unica grandeur che si respira nella pellicola è proprio quella del Male.

Da anni ormai il cinema nordico (ma anche la letteratura ad esso connessa) ci regala perle dall’estetica minimale e dalle tematiche insidiose, entrando in territori che Hollywood banalizza o teme, esprimendo così la propria vocazione a narrazione «minore», se vogliamo intendere questo termine alla maniera di Gilles Deleuze nel bellissimo saggio dedicato a Kafka: un modo di raccontare storie da esule linguistico che confina l’individualità a sfondo di avvenimenti di più ampio respiro, e che predilige la dimensione politica rispetto a quella intimista.

A donare coolness al film di Magnus Von Horn è anche sicuramente la visione a-cattolica di colpa, perché la mostruosa vocazione della coprotagonista mina la società dal punto di vista etico e se vogliamo morale (per non parlare dello scacco demografico implicito), ma senza l’evangelico concetto di peccato che l’avrebbe caratterizzata nei paesi di chiara ispirazione cristiana.

Il bianco e nero espressionista drammatizza e storicizza, allontana e dona solennità, ma è anche un intelligente strumento per magnificare la solitudine, quella di Karoline e Dagmar, costrette a rifugiarsi nell’etere per sfuggire all’orrore della quotidianità, ma anche quella di Peter, divenuto suo malgrado un fenomeno da baraccone e di Jörgen stesso, vittima dell’araldica e della ricchezza di famiglia.

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