«Io canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi avvolgono e io avvolgo loro», scriveva nel 1855 un ispiratissimo Walt Withman, elogiando l’energia sensuale che sprizza dal corpo umano e dalla sua comunione con altri corpi, in un’enumerazione parossistica e ossessiva che andava contro la mortificazione cristiana della carne.
Tutti i rivoluzionari sono inizialmente degli iconoclasti, a prescindere dal tipo di fede contro cui si scagliano, ma una volta che il proprio grido di protesta rischia a sua volta di diventare fede, raccogliendo adepti, bisogna avere il coraggio di distruggersi e ripartire da zero.
Questo sembra il messaggio dietro l’ultima fatica di James Mangold, «A Complete Unknown», biopic del primo Bob Dylan, magistralmente interpretato da Timothée Chalamet e verso della celebre «Like a Rolling Stone», un lungometraggio di 141 minuti co-prodotto dallo stesso Chalamet, che dall’83enne genio e premio Nobel per la letteratura (mai ritirato) ha ottenuto una paterna pacca sulla spalla: «è un attore brillante, sarà credibile nel recitare me, una mia versione più giovane, o qualsiasi altra parte di me».
Nel cast spicca un irriconoscibile e bravissimo Edward Norton nei panni del guru del folk Pete Seeger, una Monica Barbaro che interpreta la sensuale e pasionaria Joan Baez, ma anche Elle Fanning, l’ipersensibile compagna del primo Dylan, che le dedicherà nel 1964 il brano «Ain’t me baby», prima che il loro legame venga sbriciolato dal successo planetario misto ad autocombustione che lo travolgerà.
73 sono i brani suonati nel film, una vera e propria antologia dell’America pre-Woodstock, mentre meritano una menzione speciale Jay Cocks (storico sodale di Scorsese), che ha co-sceneggiato l’opera insieme al regista, Arianne Phillips, stilista di Madonna e costumista delle prima due opere di Tom Ford, oltre che del cult «Il Corvo», capace di (ri)vestire bene l’anima folk di quegli anni, e infine, per la fotografia, il greco naturalizzato americano Phedon Papamichael, per la capacità di rappresentare la «svolta elettrica», dagli iniziali colori pastello alle finali tinte fumose.
TRAMA
È il 1961 quando un giovane Robert Zimmerman, in fuga dal suo passato e dal gelo lacustre del Minnesota, sbarca a New York (e precisamente al Greenwich Village) per diventare Bob Dylan, e il primo atto di questa metamorfosi è omaggiare con una canzone il proprio mito Woody Guthrie (Scott McNairy), ricoverato in un nosocomio e ormai quasi del tutto paralizzato e afasico: ad officiare al rito è presente anche Pete Seeger (Edward Norton), storico cantante anti-sistema, che intuisce il genio in erba del ragazzo e lo ospita a casa sua, consentendogli di scrivere canzoni che inizieranno a girare nel circuito alternativo della Grande Mela.
Dopo un primo disco di cover dallo scarso successo, e il ménage à trois con la bella Sylvie e la famosissima Joan Baez, il talento di Dylan esploderà trasformandolo nel punto di riferimento dell’intero movimento folk, oltre che nel cantore di una generazione tradita dalla politica, dall’economia e forse anche dall’arte.
Fra alcool, fughe in motocicletta, folle in delirio e canzoni storiche, l’enfant prodige deciderà di preparare il terreno a quella che la critica musicale più avveduta ha definito «la svolta elettrica» (e difatti il libro da cui è tratto il film si chiama proprio «Dylan goes Electric»di Elijah Wald), decisione che gli costerà l’affetto di Seegel e dei suoi fan più ortodossi, oltre che un quasi linciaggio al Newport Folk Festival nel 1965.
Se ne andrà proprio in moto, il Dylan della svolta elettrica, paternalisticamente salutato da Seegel con un sibillino «fai attenzione», che forse allude (prelude) all’incidente dell’anno successivo, che concretamente gli provocherà solo la rottura di qualche vertebra, ma in cui qualcuno ha voluto ravvisare un intento suicida.
CAMBIAMENTO O TRADIZIONE?
La doppia anima di James Mangold, in grado di coniugare pellicole autoriali come «Ragazze Interrotte» (Oscar ad Angelina Jolie nel 2000), «Logan» o «Copland», a film commerciali come «Kate & Leopold», convive benissimo in «A Complete Unknown», andando a rispolverare il biopic musicale, che il Nostro aveva già felicemente frequentato con «Quando l’amore brucia l’anima-Walk the line» (2005), un genere saturo e rischioso che, nel caso specifico, poteva trasformarsi in flop visto anche il precedente e celebratissimo «Io non sono qui» di Todd Haynes.
Al contrario, e complici le notevoli prove attoriali di tutto il cast, il film funziona perché sfugge all’agiografia e alla pretesa olistica di raccontare tutto: Mangold si concentra sul frammento temporale 61/65 e trasforma uno spaccato di storia americana in una metafora universale sul genio individualista e sul dualismo fra cambiamento e tradizione.
Si capisce subito, dallo sguardo grondante coolness che non spiega mai niente («voglio essere qualsiasi cosa gli altri non vogliano che sia»), che Dylan-Chalamet non può accontentarsi dell’etichetta di folk leader, continuando a cantare le stesse canzoni, fitte di slogan didascalici e con strutture semplici e ad impatto, per tutta la vita; la parte più interessante del lungometraggio sta nell’osservare come i rivoluzionari di allora (Seeger su tutti) si trasformino in conformisti aggrappati ai propri cliché, metastatizzati in una lotta ormai sterile e anacronistica, laddove l’animo erratico e costituzionalmente vagabondo di Dylan sia sempre altrove, oltre anche se stesso, macinando amicizie ed affetti con una freddezza totalmente priva di cattiveria.
La cifra autoriale di Mangold si intuisce nei duetti fra Chalamet e la Barbaro, quando la macchina da presa si frappone fra i due facendo dello spettatore una voce aggiunta, o quando, durante la crisi missilistica di Cuba o l’omicidio Kennedy (avvenimenti finora fruiti cinematograficamente sempre dalla prospettiva della stanza ovale), la paranoia di una nuova guerra mondiale colpisce l’intera popolazione facendola riversare in strada, valigie alla mano e in cerca di un impossibile taxi, mentre Walter Cronkite catechizza la nazione dagli schermi televisivi in bianco e nero.
Chalamet ha imparato a suonare la chitarra da zero e tutti i brani vengono eseguiti rigorosamente dal vivo, dettaglio che contribuisce non poco al realismo del film e che spiega le otto nomination all’Oscar ma, se da un lato la dialettica fra tradizione e cambiamento (o fra originalità e attitudine pop) richiama un po’ le tematiche di La La Land, è innegabile che una simile opera non può non generare paragoni fra un periodo storico in cui la musica era veramente in grado di cambiare le cose, o comunque di compattare densi strati di indignazione sociale, laddove oggi, senza operare alcun tipo di confronto tecnico-estetico, si limita all’intrattenimento.
«A Complete Unknown» non è un capolavoro ma un film lucido e intelligente, anche se presenta dei limiti: c’è il rischio che al di fuori degli Stati Uniti i tanti riferimenti (non solo musicali) possano non essere compresi o giustamente collocati, così come manca completamente il Dylan «letterario» e i suoi rapporti, diretti o indiretti, con la Beat generation, per non parlare della totale oscurità che ammanta il passato di Robert Zimmerman, eppure nel rifiuto di divenire portavoce e leader di un movimento («se divento un megafono m’incepperò», cantavano i nostri CSI), c’è l’anelito dell’artista a un’indipendenza così pura da rasentare l’autodistruzione, ed è proprio questo forse il messaggio definitivo di Mr Tambourine man, e cioè l’invito a perdersi per lasciarsi attraversare dalle cose, invece che autodefinirsi tramite le ingannevoli maschere dell’Io.
Un’ultima curiosità: nella pellicola c’è un breve accenno ai rapporti fra Dylan e i Beatles anche se in realtà, probabilmente la «svolta elettrica» del cantautore deriverebbe proprio da una serie di incontri che avvennero con i quattro ragazzi di Liverpool al Delmonico’s Hotel di Manhattan, nell’estate del ’64, durante un loro tour a stelle e strisce: è lì che Paul e gli altri trasmisero a Bob l’infatuazione elettrica e lui, condividendo un’ottima erba, li spinse a scrivere testi decisamente più impegnati.
Forse può essere uno spunto per un ulteriore, e stimolante, biopic.