Midsommar: l’horror antropologico di Ari Aster

da | Gen 7, 2025 | MONDOVISIONE

Vedere in colpevole ritardo «Midsommar», il folk horror di Ari Aster risalente al 2019, dopo i fasti di «Hereditary-le radici del male», opera prima acclamata e a nostro parere sopravvalutata, significa commentare un altro gioiello distribuito dalla A 24, e apporre la lente d’ingrandimento su un modo di trattare la paura assolutamente innovativo rispetto ai classici jumpscare o alla superfetazione da serie, prequel, spin-off and so on.

Scritto e diretto dal talentuoso regista newyorkese, coprodotto da Stati Uniti, Svezia e Ungheria (proprio in Ungheria, e precisamente vicino Budapest, sono state effettuate quasi tutte le riprese), «Midsommar», che in italiano è stato inutilmente allungato con «il villaggio dei dannati», è un horror non horror splendidamente recitato da un cast di tutto rispetto, in cui l’alone da documentario si mescola a una fotografia sbiadita nella sua lucentezza, i cui tratti grotteschi, se non palesemente ironici, non riescono a depotenziare una storia dal forte impatto emotivo e dalle molteplici chiavi interpretative.

Il «ridente» villaggio di Harga, sotto un sole di mezzanotte corrusco e impietoso, coi suoi abitanti gentili e vestiti di bianco che sembrano muoversi all’unisono ma rallentati, come un coro d’insetti ubriachi, vi farà più male di qualsiasi scena splatter, in questa sorta di comunità (Comune) alla Woodstock, a metà fra gli Amish e la Famiglia di Manson, ansiosi di fare (la) festa ad ogni ospite curioso di conoscere i loro antichi costumi.

TRAMA

Dani (Florence Pugh) è fidanzata da quattro anni con Christian (Jack Reynor) che, incoraggiato dai suoi amici, vorrebbe lasciarla per le sue frequenti crisi depressive, dovute soprattutto al difficile rapporto con la sorella; dopo che quest’ultima si toglie la vita, uccidendo anche i genitori col monossido di carbonio, Dani decide di seguire Christian e i suoi amici in Svezia, nel paese originario di uno di loro (Pelle), per il Midsommar, la festa del solstizio d’estate, che si svolge ogni novant’anni e dura nove giorni.

Mentre Dani è alla disperata ricerca di qualcosa che la distolga dalla recente tragedia, sia Christian che il suo amico Josh, studenti di antropologia, sono interessati ai miti e al folclore della Svezia settentrionale e così, dopo un lungo ed estenuante viaggio, il gruppo di statunitensi raggiunge Harga.

Accolti dagli autoctoni, di bianco vestiti e ospitalissimi, i nostri vengono da subito iniziati ai piaceri di alcune sostanze psicotrope ma a sconvolgere realmente la comitiva sarà l’«Ättestupa», un antichissimo rituale che prevede il suicidio di due settantaduenni pronti a lanciarsi da una rupe (l’Ättestupa, letteralmente): il maschio della coppia non morirà subito e verrà finito a colpi di «cudgel», un rozzo martello di legno.

Simon e Connie (la coppia più affiatata) vorranno subito andarsene mentre Josh e Christian chiederanno il permesso di poter documentare i rituali della festa, ottenendolo solo in parte così, mentre Dani cercherà di interagire con le donne della comunità, un imprevisto separerà proprio Simon e Connie e quando Mark verrà sedotto e allontanato dal gruppo, Pelle inizierà a flirtare proprio con Dani, avendo compreso la sua crisi di coppia.

Fra sostanze allucinogene, danze parossistiche, macabri cartelloni spoileranti e interni ricoperti di rune e infantili disegni, Christian verrà prescelto come amante da Maja, la sorella di Pelle, e indotto a bere un filtro d’amore fatto col suo sangue mestruale e a mangiare un tortino di carne contenente i suoi peli pubici, nel frattempo Josh violerà il Rubi-Rad, il libro sacro, con esiziali conseguenze per lui, e i padri della comunità racconteranno a Christian come il destino di tutti si leghi all’interpretazione dei disegni di un adolescente endogamico.

Il finale, con l’elezione della regina di maggio e il rituale collettivo di accoppiamento fra Christian e Maja (uno dei momenti visivamente più efficaci dell’intera pellicola), si trasfigurerà nella più classica delle nemesi femminili.

LA FAMIGLIA

La totale assenza di chiaroscuri, che simbolicamente ben rappresenta la finta giovialità degli abitanti di Harga, le collane di fiori e l’estetica da comunità chiusa, sono solo la scorza di un film che indaga in modo sottile le dinamiche d’appartenenza e gli squilibri affettivi.

In uno dei passaggi nodali del lungometraggio, Pelle afferra la mano di Dani dicendole che anche lui è un orfano ma che all’interno della comunità di Harga ha trovato finalmente il suo posto, una famiglia, e anche se la donna ha iniziato a capire i macabri rituali che avvengono lì, sotto il sole di mezzanotte, non può non essere sensibile a quel miraggio d’incondizionata appartenenza, vista anche la pesante crisi che sta attraversando.

Tramite questo filtro, Aster non critica soltanto la manipolazione psicologica e i meccanismi seduttivi di determinate enclave sataniste, o radicalizzate, ma, attualizzando, tutte le echo chambers e le evoluzioni (involuzioni) digitali di queste derive isolazioniste: si possono giustificare collettivamente gesti che individualmente non solo criticheremmo ma che mettono in discussione il nostro essere più profondo, eppure l’ansia d’accettazione sociale è un magnete così potente da sacrificare il senso critico e l’autodeterminazione sull’altare della famiglia (per quanto posticcia o danneggiata essa sia).

Un altro aspetto che rende Midsommar qualcosa di più di un horror innovativo è la critica al politicamente corretto e alla presunta apertura mentale dei protagonisti, i quali invece di darsela a gambe subito dopo il primo rituale sanguinario, scelgono di restare in parte per dimostrare a sé stessi di non essere pavidi e culturalmente limitati, in parte (Josh e Christian) perché sedotti da uno scenario che potrebbe arricchire la propria carriera di ricercatori.

La comunità chiusa che attrae linfa esterna per nutrirsene e se sbarazza senza scrupoli non è una novità nella letteratura e nel cinema di genere, ma l’ambientazione di Midsommar, la luce assoluta e alcuni macabri dettagli delle torture, che richiamano le tradizioni norrene, fanno dell’opera di Aster un unicum che merita di essere visto e rivisto.

Non tutto è rappresentazione e gli esponenti di una cultura ricca e annoiata dovranno pur fare i conti con un paganesimo per niente ammaestrato, lontano dall’intrattenimento e dall’overtourism, al punto di cadere vittime dell’oblio lisergico e della libido, anche se il concetto più interessante sviscerato da Aster è la differente concezione di morte: circolare e naturale per il piccolo villaggio svedese, traumatica e negata dai membri di una società farmacologica, che ormai punta a un’eternità sintetica e anti-tribale.

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