Durante un’intervista promozionale al film, onere cui da campano doc il regista si piega con un misto di condiscendenza e annoiata curiosità, Paolo Sorrentino ha affermato che «la vista diventa una forma di sopravvivenza nel mondo», chiarendo che questo avviene nella seconda parte dell’esistenza di ognuno, quando la voracità di conoscere, possedere e vivere si asciuga in un’amara consapevolezza e persino il dolore di ciò che si è perduto, o non si ha mai avuto veramente, diventa oggetto di contemplazione disinteressata.
Fra le tante cose che racconta «Parthenope», il decimo e ispirato lungometraggio del premio Oscar, c’è soprattutto l’antropologia dello sguardo, quello del maschio per sempre in ammirazione e separato dalla bellezza femminile, l’apprendistato del desiderio altrui della donna in divenire che impara a riflettere il proprio mistero, ma anche a condannarsi nell’isolamento dell’adorazione, e poi c’è il «vedere» come estrema ratio, posizione a-morale, etica ed estetica, che s’incarna nell’artista, voyeur definitivo ed entomologo dell’anima.
Il rutilante affresco messo in scena da Paolo Sorrentino, barocco e commovente, eccessivo ed ironico, ricolmo di citazioni (più letterarie che visive), e con tanto d’invettiva contro Napoli («non esaustiva», precisa il Nostro), simile per certi versi a quella sociopolitica di Gep Gambardella sulle terrazze capitoline de «La Grande Bellezza», è un’esperienza d’amare, da mare, e d’amare suggestioni, se è vero, come diceva Karl Jaspers che, quando contempliamo un’opera d’arte noi vediamo la perla, ma non dobbiamo mai dimenticare che la perla è la malattia dell’ostrica.
TRAMA
Nata nel 1950 nelle acque di Posillipo, di fronte a una bellissima villa, e vigilata dal fratello maggiore e dal figlio della governante che sarà per sempre innamorato di lei, Parthenope cresce in una cornice sognante ed alto-borghese, omaggiata da un carretto di Versailles acquistato dal leggendario armatore e amico di famiglia Achille Lauro; la vediamo muoversi al ralenti fra le vie di Napoli, sempre più consapevole della propria abbacinante bellezza, quindi iscriversi alla facoltà di antropologia dove conoscerà il burbero e coltissimo professor Marotta (un Silvio Orlando in stato di grazia).
In una parentesi estiva a Capri incontrerà lo scrittore inglese blasé, gay ed alcolizzato, John Cheever, che le rivelerà il miracolo della bellezza, «in grado di aprire tutte le porte» ma, dopo aver rifiutato le avances di un uomo molto ricco e più grande di lei, ed aver accettato quelle del suo Sandrino, assisterà al suicidio del fratello, da sempre legato a lei da un rapporto ai limiti dell’incesto.
Colpevolizzata dai genitori, che non si riprenderanno mai dalla tragedia, Parthenope tenterà la carriera d’attrice, venendo a contatto con l’insegnante di recitazione sfigurata Flora Malva e con la starlette in declino Greta Cool, ma agli inizi degli anni Ottanta riprenderà in mano la carriera universitaria, dedicandosi a una ricerca sul miracolo di San Gennaro, occasione in cui incontrerà il Cardinale Tesorone, un Beppe Lanzetta sfuggente e mefistofelico.
L’addio mescolato a un arrivederci alla sua città e al professor Marotta, supplente paterno e padre d’un figlio «fatto di acqua e sale come il mare», la condurrà ad un esilio volontario in Trentino, da cui rientrerà nella terra natia soltanto da pensionata, nei panni di Stefania Sandrelli.
L’epilogo, felliniano e bozzettistico, riprende col terzo scudetto del Napoli e la nave-carro dei tifosi in festa, l’iniziale carretto di Versailles, chiudendo un cerchio, quello della capitale del Mezzogiorno per definizione, che non si chiude mai.
A COSA STAI PENSANDO?
«A cosa stai pensando?» è la frase che viene rivolta alla protagonista per tutto il film, domanda che irride ironicamente il mantra di Facebook e che resta, teologicamente, senza risposta, mentre a tre quarti dalla pellicola il professor Marotta finalmente svela a Parthenope cosa sia l’antropologia, e cioè il «vedere», quando però tutto il resto è andato via e ci si riduce a un punto di vista sul mondo.
La bellissima fotografia di Daria D’Antonio, le canzoni di Cocciante («Era già tutto previsto») e Paoli («Che cosa c’è») creano il perfetto alveo per una giovinezza che sfuma fra interni sontuosi, attrici bruciate e brucianti (il monologo di Luisa Ranieri è da pelle d’oca), fughe nei quartieri spagnoli con copule pubbliche fra clan camorristici e povertà estrema che ricordano «La Pelle» di Curzio Malaparte, una giovinezza destinata a consumarsi ricoperta d’oro, come un amplesso che ricrea il mito di San Gennaro, sciogliendone il sangue nel buio votivo di un miracolo privato (negato).
Le accuse di manierismo e autocompiacimento registico si sfaldano metacinematograficamente nella critica che uno dei personaggi fa proprio a Parthenope, rea di parlare per «frasi fatte» invece che vere, ma il rifugio nell’aforisma o battuta ad effetto è una scorciatoia letteraria che Sorrentino utilizza sin dai tempi di «Hanno tutti ragione», un modo per esorcizzare una solitudine ineludibile, ancor più immedicabile se associata alla bellezza assoluta di Celeste della Porta, perché «assoluta» significa scissa, separata da tutto il mondo.
Ma nel sorriso di Parthenope, enigmatico e solo apparentemente solare, si cela la malinconia della sirena rifiutata da Ulisse, che rifiuta a sua volta le facili lusinghe procuratele dalla propria bellezza, sfuggendo nel grottesco e nell’innaturale, nell’autoesilio e nell’isolamento antropologico: come il papa di «The Young Pope», che non voleva farsi vedere dalla folla di San Pietro, il cardinale Tesorone che considera un semplice show lo scioglimento del sangue del Santo, o il professor Marotta che vive il proprio dolore accerchiato da centinaia di studenti, Parthenope è la decadenza di Napoli, la perfetta sintesi fra bellezza e disperazione.