La sala professori: microcosmo della lotta di classe

da | Ott 18, 2024 | MONDOVISIONE

Ogni qualvolta esce un film ambientato in una scuola, sappiamo già che si tratterà di un conflitto, e che quel conflitto diventerà sineddoche o metonimia di un più ampio conflitto sociale, perché in un istituto scolastico le dinamiche intersoggettive sono al tempo stesso contingenti e universali, entrando in gioco i meccanismi del potere e quelli estremamente complicati dell’educazione.

«La sala professori», una produzione tedesca, turca, polacca e inglese, è un film del 2023 ambientato in Germania, presentato nella sezione “panorama” al 73emo Festival del Cinema di Berlino e scelto per rappresentare proprio la Germania agli Oscar 2024: eccellenti le musiche di Marvin Miller, in una chiave thriller che spiazza e al tempo stesso crea la giusta suspence, per la regia ispirata di Ilker Çatak e un’interpretazione più che centrata di Leonie Benesch.

I due elementi che più colpiscono a una prima analisi sono la scelta di una scuola assolutamente non fatiscente, sfuggendo al luogo comune del degrado periferico come iperbole di un’istituzione malata, ma anche la riuscita amalgama del coro scolastico, che si muove come un unico elemento da cui spiccano le dinamiche personali in maniera non forzata.

Acclamato dalla critica, nonostante un finale divisivo sul piano interpretativo, «La Sala professori» è una pellicola che ridicolizza il politicamente corretto e il mito della trasparenza, ricordandoci quanto di brutale esiste e sempre esisterà in un ambiente chiuso che deve caricarsi del peso formativo di preadolescenti e adolescenti.

TRAMA

La professoressa Carla Nowak insegna matematica e educazione fisica a una seconda media di un istituto tedesco dell’alta borghesia, è di origini polacche, preparata, innovativa, ama i suoi studenti che la accolgono con un applauso ad ogni nuova lezione, ed è una fiera sostenitrice della didattica costruttivista.

I recenti furti che stanno colpendo la scuola fanno risaltare la «tolleranza zero» della preside e dei suoi più stretti collaboratori, uno dei quali manipola due rappresentanti di classe durante un consiglio affinché rivelino indirettamente i nomi dei possibili responsabili, fino al punto di ritirare i portafogli dei ragazzi durante una lezione ed accusare uno di loro, Ali, di origini turche, reo di avere più contanti degli altri.

I genitori dell’accusato verranno convocati e difenderanno il proprio figlio, tacciando di islamofobia la preside e la scuola in generale mentre Carla, che ha disapprovato sin dall’inizio i metodi inquisitori della superiore, deciderà esasperata di risolvere da sola la faccenda lasciando il proprio pc acceso e in modalità registrazione nell’aula professori; la scomparsa dei soldi dalle tasche della sua giacca e il video che ne rivela in parte il possibile ladro, innescheranno una serie di circostanze tanto impreviste quanto dirompenti.

A finire nel mirino delle accuse sarà la madre del suo allievo più brillante, che verrà difeso a spada tratta dai propri compagni, creando un clima paranoico e quasi claustrofobico attorno all’insegnante finché, dopo un articolo a dir poco decontestualizzato scritto a suo danno e pubblicato sul giornalino della scuola, Carla tenterà di ristabilire un contatto autentico col piccolo Oskar, fino all’epilogo aperto che lascia spazio a molteplici esegesi.

L’(IN)CUBO DI RUBIK

La trama solo apparentemente lineare de «La Sala professori» si sviluppa inizialmente come un rompicapo, simile per struttura al cubo di Rubrik che Carla donerà ad Oskar affinché affini le proprie capacità logiche, ma nel procedere della narrazione diviene evidente quanto accertare l’identità di chi ha rubato sia solo un pretesto per rivelare gli oscuri ingranaggi di potere della scuola.

Da una parte c’è l’aula dove si svolgono le lezioni, campo franco che lentamente riflette come uno specchio deformante quanto accade nella sala professori che, al contrario, sembra un microcosmo di contrappesi democratici che saltano; a cercare di salvaguardare l’integrità educativa dell’istituzione che rappresenta c’è Carla che, come in «Dogville» di Lars Von Trier, è l’elemento esterno (non è nata in Germania) ammirata per la propria brillantezza, e poi perseguita proprio perché non si allinea ai metodi da Gestapo della preside e dei suoi sodali.

Quando decide di farlo, violando superficialmente la privacy di chiunque possa essere ripreso dal suo pc, e decidendo di affrontare confidenzialmente l’autore del furto, la levata di scudi del corpo docente la rende nemica di genitori e discenti, ma lei sceglierà comunque di fare un passo indietro tutelando Oskar, a prescindere dalla presunta colpevolezza di sua madre.

In un bellissimo passaggio del film, la docente spiegherà che anche nella matematica può albergare il dubbio, arma affinata di ogni intelligenza (tranne quella artificiale), quel dubbio che non sfiora nemmeno la macchina sanzionatoria della scuola, inarrestabile e autoritario sistema non in grado di comprendere ma solo di punire, metafora agghiacciante di un mondo educativo che da anni abdica al proprio ruolo formativo in funzione di una mera palestra professionale.

La prestazione contro la crescita, il test a domande chiuse contro il tema, il mito della tecnologia come panacea a tutti i mali (sistemici e sociali), il venir meno degli archetipi umanistici contro una sbrigativa psicologia di gruppo volta sempre e comunque al perseguimento dei risultati auspicati, tutto questo è diventata la scuola e «la Sala professori» ce lo racconta con spietata chiarezza.

L’intervista del giornalino scolastico, smontata e rimontata ad uso e consumo dello scandalo, diviene la perfetta rappresentazione di come nemmeno ai futuri giornalisti interessi realmente la verità, ma solo l’uso strumentale che ne possono fare per raggiungere il successo, per quanto effimero e limitato, come in un’aula di tribunale si finisce spesso per accertare se qualcuno sia o meno colpevole secondo la legge, e non secondo la più estesa ragione morale.

Il passaggio più interessante, e attuale, della pellicola è l’ingannevolezza dell’immagine che ritrae o dovrebbe ritrarre, l’autrice del furto, un frame al tempo stesso inequivocabile e opaco, tangibile ma non provante, metafora di un mondo travolto dalla post verità e dalle fake news, in cui ormai lo story telling non solo sostituisce la storia ma a volte la fonda o precede.

Oskar consegnerà il cubo di Rubik risolto a Carla, dimostrazione di quanto la verità monocromatica non sia difficile da perseguire o individuare, e di come la realtà sia ben più complessa da interpretare: c’è o ci dovrebbe essere uno spazio bianco in cui ogni adolescente deve avere il diritto di sbagliare e pagare per le proprie colpe, un margine di prova che ne misuri l’inadeguatezza rendendolo consapevole dell’insondabilità e banalità di alcuni abissi, ma una scuola costruita per (de)formare quelli che Pasolini definiva dei «gladiatori disperati», non può ambire a una simile vetta.

Oskar verrà portato via dalla polizia su una sedia dalla quale non vuole staccarsi alla fine della lezione, perché non accetta la sospensione che gli è stata inflitta, e la sua uscita involontariamente trionfale, quasi pontificia, testimonia l’opacità e limitatezza della giustizia scolastica (e adulta) contro l’irrisolvibile (in)cubo di Rubik della realtà.

Articoli Recenti

The Brutalist: l’architettura dell’esilio

The Brutalist: l’architettura dell’esilio

Alla terza prova come regista, il filmaker ed ex-attore trentasettenne Brady Corbet conferma le proprie ambizioni autoriali firmando un’opera-monstre di ben 215 minuti, costata «appena» dieci milioni di dollari (una cifra decisamente contenuta rispetto agli standard...

Fine vita o la vita come fine?

Fine vita o la vita come fine?

Lo scorso 11 febbraio, dopo due giorni di dibattito nell’aula del relativo consiglio regionale, con 27 voti a favore da parte di Pd, Italia Viva, Cinquestelle e Gruppo Misto, contro 13 delle opposizioni, l’iter legislativo partito dall’iniziativa popolare «Liberi...