Tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, «Anime Nere» è un lungometraggio del 2014 diretto dal regista romano Francesco Munzi, e da lui sceneggiato insieme a Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci, con la fotografia desaturata di Vladan Radovic e le musiche di Giuliano Taviani (figlio del cineasta Vittorio), con i preziosi innesti del compositore contemporaneo Max Richter.
Acclamato alla 71esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, e vincitore di ben 9 David di Donatello, il lungometraggio, ambientato fra Amsterdam, Milano e la Locride, presenta un cast quasi integralmente autoctono con Marco Leonardi in grandissima forma, un credibile a tratti glaciale Peppino Mazzotta e Fabrizio Ferracane in una delle sue migliore prove in assoluto; un po’ fuori ruolo la Bobulova, tra «Scarface» e «Il Padrino», mentre Aurora Quattrocchi ci regala l’ennesima prestazione di livello, dopo quella magistrale in «Nostalgia» di Martone.
La scelta di girare la storia ai giorni nostri e non negli anni Settanta (come nel romanzo di Criaco), insieme a quella di asciugare la narrazione evitando differenti piani temporali e concentrando la regia sulla vicenda dei tre fratelli, ha reso il risultato finale più centrato ed angosciante.
TRAMA
Luigi, spacciatore internazionale di origini calabresi, è costretto a rientrare nel paese natìo perché Leo, il figlio di suo fratello si è reso responsabile di un episodio potenzialmente pericoloso: ha preso a fucilate la vetrata di un bar per difendere il buon nome della famiglia, infangato dal clan rivale dei Barreca.
Mentre apprendiamo che il nipote stravede per lo zio, affascinato da uno stile di vita vincente ai suoi occhi di provinciale ambiziosamente ingenuo, e che il padre dei tre fratelli è stato ucciso molti anni prima proprio da un esponente del clan dei Barreca, Luigi cerca di rifondare le antiche alleanze perdute, incontrando però l’ostilità di Luciano, il padre di Leo, che si è rifugiato nell’allevamento di capre e nell’agricoltura, e non ne vuole sapere più nulla dei traffici dei fratelli.
Dopo che Luigi verrà ucciso, giustiziato da due sicari in moto la cui appartenenza sembra poco chiara solo alle forze dell’ordine, il terzo fratello (Rocco) scenderà con sua moglie da Milano, dove lucra da imprenditore grazie al riciclaggio di denaro sporco, per gettare luce sull’omicidio e organizzare l’inevitabile vendetta.
Ma l’impulsivo Leo, adolescente inquieto e dal grilletto facile, proverà ad anticiparlo avendo compreso che nessuna delle alleanze ricercate da Luigi correrà loro in aiuto.
Un tradimento e l’ennesimo spargimento di sangue spianeranno la strada a un finale agghiacciante e inatteso, per nulla buonista o risolutivo, che rende chiara una volta per tutte l’involontaria complicità che il Meridione sviluppa nei confronti dei suoi mali più profondi e antichi.
LA «NDRINA»
Nel romanzo di Criaco la volontà dei protagonisti coincide con quella della ‘Ndrangheta di prendere il posto di napoletani e siciliani, con quell’anelito di potere dato da fame e violenza che dovrebbe sostituire tradizione e organizzazione.
Vista la tentacolare diffusione raggiunta recentemente dalla mafia calabrese nel traffico internazionale di stupefacenti, la profezia dello scrittore sembra essersi perfettamente realizzata.
La «ndrina» di Luigi, Rocco e Luciano è in piena decadenza rispetto all’ascendente clan dei Barreca e gli isolati tentativi di ricostituire le antiche trame di potere sembrano destinati a naufragare; in una Calabria rurale, gremita di capre e palazzi lasciati a metà, con auto di grossa cilindrata (tranne il resiliente Pandino di Luciano) e uno Stato la cui assenza vibra nei frequenti tiri al bersaglio di pistole e fucili, ubiqui e accettati come parti del paesaggio, il teatro di guerra imbastito da Leo diventa studio antropologico.
Documentarista prima che regista, Francesco Munzi ha dichiarato di essere stato inizialmente preda dei pregiudizi visto che Africo (il paese dove si sono svolte le riprese, e luogo di nascita dello scrittore Criaco) «è uno dei centri nevralgici della ‘Ndrangheta», ma che nel corso della lavorazione, la diffidenza dei locali si è trasformata prima in curiosità e poi in partecipazione.
Il ruolo delle donne, volutamente appiattito in modo critico, è ridotto a quello di prefiche o silenziose conniventi, intrise della saggezza popolare di chi deve restare e custodire un sangue eternamente minacciato, e il mimetismo degli antichi rituali, mescolati a quelli profani della malavita, rivela una complessità quasi inestricabile.
Tutte le linee di forza convergono su Leo, che odia suo padre perché per lui, scegliendo di fare il pastore, ha rinnegato l’onore di famiglia, e adora il modello incarnato dallo zio, poiché il successo e i soldi sono l’unica occasione di riscatto per emanciparsi dalla gabbia sociale di Africo: non c’è cultura né individualismo da opporre alla forza della ‘ndrina, molecola e frattale del mandala della ‘Ndrangheta (solo in Calabria ce ne sarebbero circa 150), perché in un periodo storico di dissoluzione sociale, in cui la famiglia viene agitata come una bandiera elettorale ma in concreto si corrode in una fragile demografia, il clan è l’unica certezza.
Le atmosfere cospiratorie, claustrofobiche, di «Anime Nere», con gli ambienti schiacciati e il dialetto che riaffiora come un codice settario, sono i simboli di un Male ereditato ed ereditario che forse può essere estirpato soltanto con l’estremo sacrificio.
Il film di Munzi, lontano dalle atmosfere patinate di Gomorra, meno drammatico e più tragico nel senso catartico del termine, dilata l’omertà fino allo spettatore, rendendolo complice del capretto sgozzato per il pranzo di famiglia da cui tutti siamo fuggiti ma a cui, prima o poi, dobbiamo far ritorno.