«Il portiere di notte», uno dei film se non il film più famoso di Liliana Cavani, è ora disponibile gratuitamente su Raiplay, nella versione restaurata del 2018, un lavoro realizzato dal centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale e dall’Istituto Luce-Cinecittà a partire dall’originale negativo in 35 mm e dal negativo sonoro ottico: alcune sezioni rovinate sono state integrate con immagini tratte da interpositivo per complessivi 563 metri e, mentre l’intero progetto è stato supervisionato dalla regista stessa, il restauro sonoro è stata affidato a Federico Savina.
Da un soggetto di Liliana Cavani, Italo Moscati, Barbara Alberti e Amedeo Pagani, sceneggiato a quattro mani dai primi due, il lungometraggio del 1974 vanta alla fotografia il talento di Alfio Contini («più geniale degli Storaro, anche perché faceva luce con poco», come detto da Liliana stessa in un’intervista), e insieme all’intelligente montaggio di Franco Arcalli e alle scenografie di Nedo Azzimi, ci sono le bellissime musiche di Daniele Paris, i cui fiati sembrano anticipare le atmosfere claustrofobiche del Salò pasoliniano.
La coppia attorno cui ruota l’intero impianto narrativo è quella costituita da Dirk Bogarde e Charlotte Rampling, cinematograficamente estirpati da «la Caduta degli Dei» (1969) di Visconti, anche se l’intento della regista era quello di togliere all’attrice inglese l’iconica immobilità disegnatale da Luchino e trasmetterle invece una luce selvaggia e una spinta vitale, per quanto autocombustiva.
Nel cast spiccano anche Philip Leroy nel ruolo del nazista «ripulito» con tanto di monocolo da operetta e il ballerino e coreografo Amedeo Amodio (che collaborerà con la Cavani anche al successivo «Al di là del bene e del male»), che interpreta il ballerino omosessuale segretamente innamorato del protagonista.
TRAMA
Siamo nella Vienna del 1957 e il «Der Oper» è l’hotel-microcosmo in cui lavora Max, ex ufficiale delle SS in incognito ed ora portiere di notte, che procura toy boy ad aristocratiche signore annoiate provvedendo al benessere di una clientela che rappresenta l’Europa uscita ma non ancora ripresasi dalla fine del conflitto.
Molto amico con Bert, ex nazista a sua volta, cui pratica iniezioni contro l’insonnia e che allestisce spettacoli privati di danza apposta per lui con tanto di omaggi floreali, Max è anche membro di una ristretta cerchia di ex appartenenti al Terzo Reich che si riuniscono periodicamente per cercare di distruggere le prove che li incriminerebbero; la sua vita notturna, pressoché coincidente col lavoro, verrà scossa dall’incontro con Lucia, moglie agiata di un direttore d’orchestra e un tempo sua amante nel campo di concentramento dov’era operativo.
Tra flashback nei lager, con scene che rivelano la natura apertamente sadomasochista del loro legame, e il riprendere a frequentarsi dei due, complice il lavoro itinerante del marito di Lucia, la storia si suddivide in due parti, la seconda delle quali vede le indagini di Klaus e gli altri alla ricerca di prove che incriminino Max, per poterle distruggere, come hanno già fatto con sé stessi in precedenza, ma quando la testimonianza di un ristoratore italiano che vive e lavora a Vienna va a sbattere proprio contro la sua amante di allora, Max sarà costretto prima ad affrontare l’uomo e poi a nascondere Lucia ai suoi cospiratori.
I due finiranno per confinarsi nell’appartamento di Max (che nel frattempo ha lasciato il lavoro) e dopo aver ignorato i ripetuti avvertimenti, prima amichevoli poi violenti, di Klaus and co, stanati dalla fame ma anche dalla voglia di sottrarsi a quel nuovo lager, usciranno incontro al proprio destino su un ponte del Danubio.
BURRO E MARMELLATA
Nato dalle ceneri (mai termine fu più tristemente appropriato) di un documentario commissionato dalla Rai alla Cavani nel 64-65 dal titolo «Storia del Terzo Reich», andato in onda sull’allora Secondo Canale e mai approdato al primo, nonostante il notevole successo ottenuto, per lo stop dell’Ambasciata tedesca in Italia, il soggetto de «Il Portiere di Notte» sorse dall’idea centrale di una critica al male assoluto costituito dal Nazismo e all’incapacità (misurata proprio ai tempi del documentario da parte della regista) del popolo tedesco di fare i conti col proprio oscuro passato.
In un paio di passaggi della pellicola, apparentemente minori e in realtà significativi, la Cavani si smarca dal tema dell’antisemitismo, facendo dire a Mario, il ristoratore italiano, che Lucia era figlia di un socialista e a due/tre comparse nude di fronte ai propri aguzzini che la loro religione era luterana/protestante/cattolica e non ebraica, questo perché la denuncia rivolta al Reich riguardava tutte le vittime dei campi di concentramento e non solo quelle di fede semita.
Il concetto più interessante dell’opera non è tanto il ricrearsi della dinamica sadomasochista al di fuori del lager, ma il fatto che la vittima lo ricerchi con tutta sé stessa, lontana dal plagio mentale concentrazionario e senza alcuna esigenza al di là dell’auto-degradazione, visto anche l’alto rango socio-economico cui appartiene.
Al tempo stesso assume un valore estremamente morale, in senso paradossale, la decisione di Max di lavorare di notte perché la luce gli provoca vergogna e lui «resta marcio dentro, come allora», laddove i suoi ex commilitoni si sono liberati del senso di colpa attraverso la psicoanalisi e se tornassero indietro rifarebbero tutto quello che hanno fatto, arrivando all’estremo di reclamare la restituzione dei propri gradi perduti; la terapia vissuta come autoassoluzione per tornare a peccare infila il dito proprio nel rimosso collettivo tedesco e nel rinascente negazionismo, al punto che persino la relazione malata fra Max e Lucia appare pura rispetto all’ipocrisia borghese dei burocrati del massacro.
Il film subì censure e critiche un po’ ovunque, com’è facile immaginare, ma mentre in Francia si maldigerì l’attribuzione del ruolo di protagonista/eroe a un ex-nazista, e l’averne approfondito la psicologia laddove fino a quel momento le SS erano state cinematograficamente descritte in modo stereotipato o piatto, in Italia «Il Portiere di notte» fu ritirato e poi marchiato dal V.M. 18 anni perché in più di una scena la Rampling sceglie di «stare sopra» nel rapporto sessuale (!).
Il film della Cavani è moderno perché è un film dello sguardo e sullo sguardo: Max riprende il gregge nudo nei lager e in generale i nazisti hanno documentato ogni nefandezza compiuta, anche a proprio discapito, ma lo sguardo si estende anche ai balletti di Bert che il Nostro illumina come un improvvisato scenografo da camera, fino a dilatare la metafora voyeristica ai prigionieri costretti ad osservare le violenze subite dai propri compagni di sventura, come una sorta di prequel di ciò che potrebbe avvenire loro: l’impunità del potere il cui sguardo totalitario vuole abbracciare bulimicamente l’orrore che compie e compirà si scontra dialetticamente con lo sguardo impotente della vittima costretta non solo a subire ma a presagire attraverso la sofferenza dell’altro.
In «Ultimo Tango a Parigi» Brando era un direttore d’albergo e non un portiere e alla famosa scena del burro fa da contraltare quella in cui, nel film della Cavani, Max e Lucia, ormai affamati e rinchiusi da giorni in casa, si dividono un vasetto di marmellata dopo essersela spalmata sul viso e sulle mani: sia Bertolucci che la Cavani mettono in scena il profondo legame fra eros e morte ma il primo denuncia la famiglia borghese in una pellicola senza passato, mentre la seconda fa rivivere i fantasmi della memoria, storica e sensuale, dimostrando che nessuna catarsi è possibile perché, come conclude Charlotte Rampling: «non esiste cura».
La reiterazione del Male, fatto o subito, non gode delle amnesie necessarie alla Storia per ripetersi e la lucidità con cui Max e Lucia si scambiano il ruolo di vittima e carnefice ci consegna a un pessimismo assoluto: il libero arbitrio è (quasi) sempre la libera scelta del proprio male.