Fine vita o la vita come fine?

da | Feb 18, 2025 | IN PRIMO PIANO

Lo scorso 11 febbraio, dopo due giorni di dibattito nell’aula del relativo consiglio regionale, con 27 voti a favore da parte di Pd, Italia Viva, Cinquestelle e Gruppo Misto, contro 13 delle opposizioni, l’iter legislativo partito dall’iniziativa popolare «Liberi subito», con l’appoggio dell’«Associazione Coscioni», è stato approvato dall’assemblea regionale toscana, che di fatto ha reso effettiva la prima legge italiana sul fine vita.

La Corte costituzionale, che nell’ormai lontano 2019 aveva chiesto al Parlamento di fare una legge in materia senza ottenere alcun risultato, aveva anche escluso la punibilità del medico che assiste il suicida in casi ben determinati e, grazie a tali indicazioni, in questi anni in Italia ci sono stati alcuni suicidi medicalmente assistiti ma, in concreto, ogni Asl si muove in modo autonomo, restando assente una regolamentazione generale.

Le reazioni sono state molteplici e variegate: il presidente della regione Toscana Eugenio Giani ha dichiarato: «sono convinto che questo voto darà un impulso al legislatore nazionale, che per i suoi aspetti di competenza è bene risponda alla Corte», mentre Filomena Gallo (segretaria dell’associazione Coscioni) lo ha definito «un segnale di civiltà soprattutto per quelle persone che hanno atteso per mesi, se non anni, una risposta in condizioni di estrema sofferenza».

Dal fronte cattolico, la Conferenza Episcopale Toscana, attraverso l’autorevole voce del Cardinale Paolo Augusto Lojudice ha definito a caldo l’approvazione della legge sul fine vita «una sconfitta per tutti», mentre Marco Furfaro (Pd) ha parlato del «riconoscimento di un diritto fondamentale, quello di essere liberi fino alla fine», ed Emma Bonino (+ Europa) ha auspicato l’espandersi di una simile libertà di scelta ad ogni regione, affinché la politica e il Parlamento assumano finalmente una posizione in tal senso, «ponendo fine ad accadimenti che non hanno alcun rispetto della dignità umana».

Ma non si sono fatte attendere le polemiche e, accanto alla Cei che ha ricordato una terza via tra l’eutanasia e l’accanimento terapeutico e cioè le cure palliative, Maurizio Gasparri ha parlato di una «grande forzatura», mentre Marco Stella (Forza Italia) ha evidenziato il rischio di un «turismo della morte» verso la Toscana da altre regioni.

Sibillino invece l’intervento del vicecapogruppo di Fdi alla Camera, Alfredo Antoniozzi, che nel sottolineare la non pertinenza delle Regioni sul tema del fine vita, e auspicandosi un intervento dell’esecutivo, lo ha anticipato solo di pochi giorni visto che il Centrodestra ha presentato ricorso (15 febbraio) al collegio di garanzia statuaria per la verifica di conformità rispetto allo statuto regionale, ed ora bisognerà aspettare 30 giorni per conoscerne la pronuncia, lasso di tempo in cui la legge non potrà essere promulgata.

Ma di cosa si parla quando si fa riferimento al «suicidio assistito»?

A differenza dell’eutanasia, nel suicidio assistito il soggetto sceglie di togliersi la vita somministrandosi le sostanze necessarie al decesso in modo autonomo e senza l’aiuto di soggetti terzi, che possono semmai assisterlo nelle fasi preliminari o post-mortem; per eutanasia si intende invece il provocare intenzionalmente, e nel suo interesse, la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia o menomazione psichica o fisica, anche se poi va operata una distinzione fra «eutanasia indiretta», e cioè l’uso di cure palliative che possono comportare, come effetto secondario e indesiderato, l’accorciamento della vita del paziente, ed «eutanasia passiva» (o omissiva), e cioè il rifiuto dell’accanimento terapeutico.

Ripercorrendo (giuridicamente) le tappe antecedenti lo scorso 11 febbraio, la sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, detta «sentenza dj Fabo», per l’omonimo dj morto in Svizzera, definiva i 4 requisiti per accedere alla pratica: 1) patologia irreversibile; 2) la presenza di sofferenze (fisiche o psicologiche) reputate intollerabili; 3) la dipendenza del paziente da «trattamenti di sostegno vitale» (quelli che per la sentenza 135/2024 sono i respiratori meccanici, le terapie farmacologiche, e in generale i trattamenti senza i quali il soggetto morirebbe, e che ogni Asl locale deve giudicare caso per caso); 4) la piena lucidità e consapevolezza del paziente nel prendere decisioni libere e consce.

Se la legge dovesse essere promulgata, entro 15 giorni si dovrà istituire un’apposita commissione di verifica dei requisiti, costituita da un neurologo, uno psicologo e uno psichiatra, un anestesista e un infermiere, tutti dipendenti dal servizio sanitario regionale che, dopo aver informato il paziente di tutte le possibili alternative alla morte (cure palliative e sedazione profonda), dovranno aspettare, per procedere, il parere del comitato etico locale: quest’ultimo dovrà essere fornito entro 7 giorni dalla presentazione della domanda, mentre 20 sono i giorni a disposizione della Commissione, più altri 10 per definire la modalità del suicidio, e ulteriori 5 per permettere al comitato etico di esprimersi anche su questo (complessivamente siamo quindi sui 50 giorni).

Il paziente potrà decidere se somministrarsi da solo il farmaco o se ricorrere al medico di fiducia (indicato nella domanda iniziale), così come potrà sospendere o interrompere in qualsiasi momento la pratica e, per ciò che concerne i fuori regione, basterà cambiare medico di base per accedere gratuitamente alla procedura, visto che il farmaco è a carico della Toscana con uno stanziamento di 10 000 euro l’anno per tre anni.

La situazione nazionale, al di là del caso toscano, vede lontanissime Sicilia, Molise e Trentino Alto Adige, con le altre sedici regioni che hanno tutte più o meno una proposta di legge sul suicidio assistito (bocciata, riscritta, in discussione, o affossata), per un totale nei soli ultimi 12 mesi di 16 000 richieste, di cui solo 11 accolte dopo aspre battaglie legali, e 5 deviate in Svizzera (ma qui il vulnus è che a verificare i requisiti è sempre il nostro Servizio Sanitario Nazionale, che non garantisce tempi certi alla risposta).

Gli ostacoli culturali a una normativa (non solo regionale) sul fine vita sono di tre tipi: a) il pensiero che si tratti di questioni etiche, sovrastrutturali e non strettamente politiche; b) l’idea diffusa, fra la maggior parte dei medici, che il dolore non sia una patologia in sé ma solo l’effetto collaterale di un’infermità; c) la concezione di buona parte della politica, reazionaria e forse più conservatrice di quella cattolica stessa, restia ad affrontare in modo organico la materia.

Come ha intelligentemente sottolineato a caldo Emiliano Fossi (Pd), l’approvazione toscana alla prima legge sul fine vita assume ancora più valore se si ricorda la storica avversione di questa regione alla pena di morte: abolita dalla Leopoldina nel 1786, reintrodotta nel 1795, nuovamente abrogata nel 1848, rimessa in vigore (ma mai applicata) nel 1852 e 1853, di nuovo abolita nel 1859 e ideologicamente avversata dal penalista Carlo Cattaneo («perché dovremmo accettare il »barbaro fantasma del boja»?) e dallo studioso lucchese Carrara, che nel 1865 si lagnava di dover compiangere un decapitato come «vittima dell’unificazione italiana».

Abolire la pena di morte come segno di evoluzione sociale per rivendicare il suicidio assistito come simbolo di autodeterminazione, ci riporta al dualismo del film cult «Il mare dentro» (2004), e al dialogo fra il protagonista, Ramon (laico e tetraplegico) che affermava: «una vita che elimina la libertà non è vita», e il prete, anche lui tetraplegico: «una libertà che elimina la vita non è libertà».

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