Trouble every day: dall’intimità all’interiorità

da | Ott 15, 2025 | MONDOVISIONE

Sul finire degli anni Ottanta la regista francese Claire Denis («Beau Travail») incontra durante un soggiorno negli Stati Uniti l’allora sconosciuto Vincent Gallo, ne resta cinematograficamente folgorata e gira con lui un cortometraggio («Keep it for yourself», 1991), mentre la casa di produzione indipendente Good Machine le chiede di partecipare a un ciclo di sei pellicole horror, proposta che la porterà a scrivere la prima bozza di quello che diventerà poi «Trouble every day».

Il progetto naufragherà per divergenze stilistiche, in quanto il taglio suggerito dalla casa di produzione americana doveva essere d’ironico distacco, una sorta di pastiche postmoderno che la Denis rifiutò all’istante, riuscendo a realizzare l’atipico horror che voleva ben dieci anni dopo, con capitali francesi, tedeschi e giapponesi.

Il risultato finale, presentato fuori concorso al Festival di Cannes nel 2001, si incunea nel solco della New French Extremity (vedi Gaspar Noè) ed è un noir esistenzialista con innesti body horror, la cui traduzione in italiano («Cannibal Love-mangiata viva») non è solo filologicamente inappropriata ma persino offensiva.

Da segnalare alla scrittura e alla fotografia due storici sodali della regista francese, rispettivamente Jean Pol Fargeau e Agnès Godard, mentre si riconfermano alla colonna sonora una vecchia conoscenza della Denis, i britannici Tindersticks; glaciale e magnetico Vincent Gallo, mentre l’interpretazione di Bèatrice Dalle sarà così calzante da renderla un’icona horror negli anni a seguire.

TRAMA

Shane Brown e sua moglie June sono a Parigi in luna di miele ma l’uomo ha nascosto alla donna che nella ville lumière vive anche Léo Semeneau, uno scienziato che ammira e che è stato allontanato dal mondo accademico per alcune, discutibili, ricerche sul cervello.

Medico anche lui, e socio di un’importante casa farmaceutica, il Dr Brown ha partecipato come cavia anni prima, insieme a Coré, la moglie di Léo, ad un esperimento nella Guyana che li ha resi entrambi vittime di una malattia che agisce sulla libido, trasformando delle normali pulsioni sessuali in istinti cannibalici.

In una Parigi in cui predominano i grigi e i marroni, con abbondanti riprese di interni e soglie che erodono l’icastica bellezza della capitale francese, Shane si aggira preda di un’inquietudine che fatica a dominare, tallonando sconosciute o avvicinandole in metropolitana per annusarne la nuca fra lo stupore generale.

Sua moglie June non riesce a capire perché il marito non voglia o non riesca a consumare un normale rapporto sessuale con lei, ma nel frattempo le ricerche danno i loro frutti e Shane scopre dove vive il dottor Semeneau.

Prima che lo raggiunga, una coppia di ladruncoli si intrufola nell’abitazione dove Léo ha murato Coré, che ogni tanto sfugge al suo controllo per sedurre (e nutrirsi di) ignari camionisti, e il più audace dei due disserra la porta dietro cui è prigioniera iniziando a fare l’amore con lei.

Il seguente coito, virato in antropofagia, trasforma la donna in una maschera di sangue ed è così che la trova Shane, attratto da lei sin dai tempi della Guyana, ma ora costretto a difendersi dalla sua furia da mantide religiosa.

Ugualmente esplicita ma più graduale sarà la scena in cui anche il dottor Brown libererà le proprie pulsioni, stanco di masturbarsi in segreto, e sul finale, quando i due coniugi decideranno di ripartire per gli Stati Uniti, un’ombra di spaventata consapevolezza attraverserà il volto geometricamente borghese di June.

IL MORSO è UN MEZZO POETICO

«Il morso è un mezzo poetico, bello e doloroso, per parlare dell’atto sessuale, del gesto di entrare nel corpo dell’altro», ha dichiarato la regista francese che ha dato molta importanza anche al colore del sangue: «non è ketchup […] ha una presenza oscura, materiale».

Che la Denis si sia ispirata al cinema di Jacques Tourneur («Il Bacio della Pantera», 1942) non è un mistero visto che ha chiesto a Béatrice Dalle (Coré) di riguardarne la filmografia, ma del maestro del «meno si vede e più si vede» ha rovesciato l’estetica andando ben oltre il citazionismo.

Il minimo comune denominatore fra i due autori potrebbe essere un’affermazione dello stesso Tourneur: «la paura e l’orrore […] la crudeltà sono dentro di noi. Un buon film horror risveglia i nostri istinti primordiali addormentati», cui si associa a perfezione quella della Denis: «il male non è mai l’altro […] tutto è interiore», con buona pace di Jean Paul Sartre («l’inferno sono gli altri»).

Partire da un orrore né gotico né soprannaturale ma viscerale, usarlo come metafora prima sensuale e poi sociale, quindi, tradurlo cinematograficamente in un plot lento e poroso ma con inquadrature così esplicite da divenire epidermiche, è stato il modo della Denis di pantografare l’eleganza de «Il Bacio della pantera», nella corrente della New French Extremity.

I baci diventano morsi, la saliva sangue, e la parete fra erotismo e morte viene lacerata dalla telecamera ma, a differenza del cinema di genere, con le sue regole prestabilite e la rassicurante alterità del mostruoso, noi diveniamo Shane e Coré perché la loro antropofagia è l’estremizzazione delle tare sessuali che dividono ogni coppia, moderna o postmoderna, tare corporali e di linguaggio che diventano adulterio o frustrazione ma che, come in Trouble Every Day aprono abissi di solitudine e incomunicabilità.

«It’s on the inside of me/so don’t try to understand», cantano i Thindersticks e Vincent Gallo sembra uno dei vampiri esistenzialisti di «The Addiction» di Abel Ferrara mentre si aggira per una Londra degna di Cronenberg, preda di una disperazione che anticipa quella di Fassbender in «Shame»: è un dettaglio minore a segnare l’eleganza visiva del cinema della Denis, e cioè l’opaco livido di un morso sulla nivea pelle di June, il tentativo da parte di Shane di possederla ma senza andare fino in fondo, il fantasma amoroso del bestiale amplesso che consumerà successivamente con la sua (prima?) vittima, il racconto epidermico di una distanza incolmabile e la certezza che il segreto (i segreti) di ogni coppia risiedono proprio nel rispetto dei propri confini, e nell’impossibilità quotidiana di «mangiarsi vivi».

Mantenere il bacio, direbbe Recalcati, ma non il morso aggiungiamo noi, per non cadere, come ha scritto Vincent Bonnet “dall’intimità all’interiorità».

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