Emotivation e Robotica Sociale: la strada meno battuta

da | Ago 13, 2025 | IN PRIMO PIANO

Una recente ricerca, condotta in parallelo presso l’università di Guelph e quella di Toronto, ha aggiunto un nuovo tassello nell’interazione uomo-robot.

Pubblicato su «Frontiers in Robotic and AI», lo studio ha seguito per quattro anni 19 famiglie che nel 2021 avevano ricevuto «Luka», un robot educativo per supportare l’alfabetizzazione precoce dei bambini in età prescolare, un simpatico accessorio con grandi occhi da gufo: il sorprendente risultato è che ben 18 delle 19 famiglie hanno conservato il robot in casa nonostante i figli avessero superato l’età interessata dal dispositivo.

Nel 2025, infatti, pur avendo raggiunto fra i 7 e i 10 anni, i bambini e i loro genitori hanno continuato a ricaricare regolarmente Luka, utilizzandolo come narratore di storie o riproduttore musicale; alcuni dei piccoli partecipanti allo studio hanno dichiarato di conoscere bene la natura meccanica di Luka ma di essersi affezionati a lui e di considerarlo quasi un fratellino.

Gli esperti di settore hanno parlato di «persistenza emotiva» declinandola in tre diverse direttive: 1) attaccamento emotivo e personificazione; 2) identità famigliare simbolica; 3) riutilizzo pratico.

L’elemento più interessante, da un punto di vista sia interattivo che psicologico, è di certo quello simbolico, col passaggio del robot da mero dispositivo educativo a membro integrante della famiglia ma anche, col passare degli anni, a ricordo d’infanzia, traguardo educativo raggiunto, o rappresentazione dei valori famigliari.

Per molti genitori Luka è divenuto anche lo specchio della crescita dei propri figli, l’equivalente avveniristico delle progressive tacche per l’altezza segnate su mobili o pareti.

La «personalizzazione» del robot è avvenuta in differenti modi a seconda del target culturale ed emotivo delle famiglie: in alcuni casi è stato esposto sulle librerie come una sorta di mediatore culturale, in altre è rimasto in salotto a mo’ di elemento tecnologico decorativo, in una deposto sopra un centrino a guisa di piccolo mobile, mentre alcuni bambini l’hanno addobbato di oggetti o targhe col proprio nome impresso sopra.

La persistenza emotiva e la simbolizzazione di Luka, fenomeni che hanno interessato l’intera famiglia e non solo i bambini, hanno fornito importanti indicazioni ai progettisti: a) sarà necessario incoraggiare un «pensionamento progressivo» dei dispositivi che rispetti l’attaccamento graduale sviluppato dai consumatori; b) considerare che tale attaccamento non si misura affatto sulla frequenza d’uso, visto che a volte Luka è stato utilizzato solo poche volte al mese, ma questo non ha minimamente intaccato il tasso d’affettività raggiunto; c) preoccuparsi di un supporto software prolungato, visto il panico dimostrato dai bambini quando, scaduto il target, gli aggiornamenti del robot sono cessati.

Infine, ma non in ordine d’importanza, quando questa tipologia di robot sarà diventata di utilizzo comune nelle case di tutti, bisognerà elaborare una narrazione in grado di raccontare il ruolo di tali tecnologie una volta terminato il previsto ciclo di consumo, introducendo i bambini al concetto di fine e al macro-concetto di morte (esperienza pedagogica che già avviene da secoli attraverso la convivenza con animali domestici, o da cortile).

ROBOTICA SOCIALE

L’intelligenza artificiale, con la sua continua evoluzione, sta permettendo ormai alle macchine di uscire dall’angusto perimetro delle fabbriche per inserirsi nel tessuto sociale e assistenziale: è in questo filone di pensiero che si inserisce la «robotica sociale», intesa come progettazione, studio e sviluppo di robot in grado di interagire in modo naturale con gli esseri umani, non più solo comprendendone le emozioni ma anche replicandole ai fini di un’interazione più fluida.

Se la robotica industriale puntava all’efficienza, quella sociale punta invece all’interazione. Per comprendere appieno le potenzialità di tale salto di paradigma, basta elencare alcuni possibili ambiti di applicazione: l’assistenza agli anziani, l’educazione inclusiva, il supporto ai disabili, la terapia e la comunicazione.

Lo scopo, in linea coi parametri dell’industria 5.0, è quello di combinare alle capacità computazionali dell’AI quelle operative della robotica e quelle cognitive e decisionali dell’intelligenza umana, in modo che i nuovi robot sociali non sostituiscano l’uomo ma collaborino con lui, rispettandone i comuni valori etici, sociali e ambientali.

La parola chiave è responsabilità, sia quella degli operatori che degli utenti finali, soprattutto in caso di errori o decisioni algoritmiche dagli esiti indesiderati, perimetro che crescerà di volume e importanza nel momento in cui i suddetti robot, autonomi o semiautonomi, inizieranno a prendere decisioni sempre più complesse (basta pensare alla rivoluzione che potrebbe verificarsi nel settore delle assicurazioni automobilistiche in caso di passaggio, parziale o totale, alle auto a guida autonoma).

Il grande limite della robotica sociale resta, ad oggi, l’incapacità di imitare il meccanismo decisionale legato alle emozioni, che negli esseri umani resta in gran parte istintivo/emotivo.

Tale deficienza emotiva è concretamente sintetizzata dal «paradosso di Moravec», secondo il quale ciò che è difficile per le macchine è facile per gli esseri umani e viceversa: un robot può elaborare in breve termine una mole enorme di dati o gestire velocemente un’intera catena di montaggio, ma non è in grado di interpretare istintivamente lo stato d’animo di una persona da un semplice sguardo, operazione che anche un bambino molto piccolo apprende senza alcun addestramento.

L’ «Emotivation», neologismo inventato di recente dalla professoressa e ricercatrice Staffa, fusione di «emozione» e «motivazione», rappresenta la dimensione emotiva dell’interazione, e cioè la spinta all’azione che non è strettamente legata al raggiungimento di determinati obiettivi, come decidere di aiutare qualcuno senza tornaconto personale ma solo perché gli si vuol bene.

Ma come si può, in concreto, introdurre l’emotivation nella robotica sociale?

L’utilizzo di telecamere di profondità che analizzino la postura di una persona o, attraverso degli algoritmi basati su reti neurali, le sue espressioni facciali, soprattutto su ampie finestre temporali, in modo da minimizzare gli errori interpretativi, potrebbero essere un buon inizio, soprattutto se integrati con sensori non invasivi o biomarcatori biologici in grado di identificare eventuali differenze fra emozioni esternate e reali (una persona può simulare serenità essendo in realtà arrabbiata, e un eventuale e innaturale aumento del ritmo cardiaco potrebbe rilevare lo iato).

Mentre la tecnologia sembra già pronta, i costi, soprattutto per un ampio mercato, assolutamente no.

Al di là della fattibilità tecnica e della realizzabilità economica, ma anche della responsabilità dietro ognuno di questi studi, andrebbe analizzato quanto di umano ed umanistico si stia perdendo a fronte di tale poiesis «umanoide»: in quale direzione si sta orientando l’intelligenza umanistica mentre si preoccupa di «svezzare» quella artificiale?

Forse bisognerebbe ricordare l’insegnamento del poeta Robert Frost che, fra due strade divergenti in un bosco, decise di prendere quella meno battuta (o digitata)?

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