Il 21 giugno scorso, ad essere più precisi la notte fra il 21 e il 22 giugno, ha avuto luogo l’operazione «Martello di Mezzanotte», con cui gli stati Uniti hanno bombardato tre siti nucleari iraniani (Fordow, Natanz e Isfahan): lo stesso presidente americano, con berretto da baseball rosso siglato MAGA, «make America great again», ha prima dichiarato su Truth, alle 20 americane: «non ci sono altri militari nel mondo in grado di fare questo. ORA È TEMPO PER LA PACE» e poi «il bullo del Medio Oriente ora si fermerà» (riferendosi ovviamente all’Iran).
Poche ore dopo l’operazione the D. ha parlato anche alla Casa Bianca con a fianco il vicepresidente Vance, il segretario alla difesa Heseth e il Capo della diplomazia, nonché consigliere per la Sicurezza nazionale, Marco Rubio, affermando che «gli impianti chiave per l’arricchimento sono stati completamente e totalmente obliterati», definendo la missione «un totale successo» e la minaccia nucleare «annientata».
Partendo dal presupposto che durante una guerra la quota di propaganda si dilata a dismisura e che il Presidente degli Stati Uniti ha parlato a caldo, quando cioè i velivoli americani erano da poco al di fuori dello spazio aereo iraniano, e dopo aver sganciato le bombe, la replica dell’ayatollah Khamenei è andata in direzione opposta e contraria: «non c’è stato nulla di significativo» ha detto il leader politico e religioso che si è poi congratulato con «la grande nazione iraniana» per la duplice vittoria sul «regime israeliano» che «sarebbe stato schiacciato se non fossero intervenuti gli americani» e sullo stesso «regime americano» che ha ricevuto «un duro schiaffo».
In un tripudio di maiuscole e retorica da stadio, Trump ha dichiarato che l’uranio «non è stato spostato dai siti bombardati […] i quali sono stati completamente distrutti», dando un duro colpo a un programma nucleare «devastato» (Hegseth), laddove le autorità iraniane hanno parlato invece di uno spostamento e della messa al sicuro dell’uranio prima del rilascio delle bombe a stelle e strisce.
A complicare un clima già di per sé rovente è stato un primo rapporto del Pentagono finito sui giornali, che avanzava dei seri dubbi sui reali danni causati alle centrifughe sotterranee di Teheran, anche se la portavoce della Casa Bianca, Karoline Levitt, ha subito dichiarato (a Cnn e New York Times) che il suddetto rapporto esisteva ma proveniva da un «low-level-loser», e cioè da un perdente di basso rango evidentemente invidioso del potere di Trump e ansioso di screditarlo di fronte all’opinione pubblica mondiale.
Feroce e paradossale il controcoro di Trump che, dopo aver definito il rapporto una fake news, ha espresso (tramite un generico «si vocifera») l’intenzione di Cnn e New York Times di licenziare i giornalisti firmatari degli articoli in esame.
Perché questo ribaltamento di prospettive diviene, oltre che un grave problema, anche l’esatta rappresentazione di un’inattesa evoluzione (o involuzione) linguistica? Innanzitutto perché è la politica in questo caso a raccogliere indiscrezioni sul mondo giornalistico e non il contrario, arrivando persino all’intimidazione, ma anche perché la verità degli enunciati sembra aver perso la propria centralità rispetto alla funzione pragmatica ed evocativa del linguaggio: ciò che conta non è tanto il guadagnare la scena, perché ormai è tutta scena, quanto il demolire ogni forma di intermediazione, giuridica, politica e intellettuale, fra il potere e il popolo.
Ma un potere preoccupato solo di perpetrare sé stesso, che ventila licenziamenti ai giornalisti scomodi è concepibile nei regimi e non nei sistemi democratici, eppure la dittatura dei social ha permesso il trionfo dell’opinione sul giornalismo di controllo e verifica delle fonti, al punto che ormai i massimi leader mondiali dialogano coi propri elettori direttamente tramite i social media, rafforzando l’illusione (assolutista) di un rapporto quasi epistolare.
Nel 2012 l’allora padre Robert Prevost (oggi Papa Leone), priore dell’ordine di Sant’Agostino, metteva in guardia non solo la Chiesa ma tutte le istituzioni dalla confusione del linguaggio con l’incantamento e con la messa in scena, del rito con lo spettacolo; la politica iniziava già da allora ad essere performance e latrice di una visione del mondo, di un immaginario collettivo, e non più solo espressione di un programma e amministratrice della cosa pubblica.
Nel definire i Santi Padri della Chiesa (Leone Magno, Ambrogio, Gregorio di Nissa) grandi predicatori perché grandi retori, il futuro Papa voleva dimostrare che tutti gli uomini di potere sono tali non soltanto perché perseguono, o dovrebbero perseguire, la verità ma anche perché padroneggiano il codice culturale e comunicativo del loro tempo.
Citando Tertulliano: «lo spettacolo visivo è il dominio del secolo», anche se il filosofo romano si riferiva al circo, Prevost scriveva: «La Chiesa dovrebbe resistere alla tentazione di credere di poter competere con i moderni mass media trasformando la sacra liturgia in uno spettacolo».
In un periodo storico in cui il potere secolare adotta le forme del sacro per puro scopo scenografico, il compito della Chiesa è quello, fra gli altri, di smascherare tali espressioni di manipolazione e tutti i simulacri (per dirla à la Baudrillard) di salvezza.
«La nostra missione è introdurre le persone alla natura del mistero come antidoto allo spettacolo […] riorientando l’attenzione del pubblico, spostandola dalla spettacolarità verso il mistero.», scriveva sempre Prevost, donando alla Chiesa un ruolo civile e politico, ma anche dissuadendola dalla pericolosa metamorfosi in un clone del potere laico e scientista che tutto mostra e rivela, e ricordandole la sua funzione introspettiva e misterica.
Eppure, a ricordarci quanto diceva Debord, e cioè che è molto difficile uscire dalla società dello spettacolo, il 15 luglio scorso, davanti Castel Sant’Angelo a Roma, dopo una processione di comparse del film «Il Conclave», orchestrata dalla storica sartoria Tirelli, ma con i cardinali in occhiali da sole, gli stilisti Dolce e Gabbana hanno fatto sfilare ben 105 look in stile clericale.
In un tripudio di tinte simbolo della liturgia cattolica (bianco papale, rosso e viola), con un’alta gioielleria ispirata all’Antica Roma e tutta venduta nel giro di pochi giorni, si è assistito a una parata di chierichetti in tuniche bianche ricamate, seguiti da preti in completi tre pezzi, con cappotti lunghi fino a terra ricoperti di croci di pietre e perle, con in mano un incensiere e con tovaglie liturgiche assemblate sulle giacche di mohair nero.
L’alta moda si sposa all’alta sartoria e il Made in Italy trionfa grazie ai simboli liturgici della Santa Sede, dimostrando come lo spettacolo del potere coincida col potere dello spettacolo, e come a volte la coscienza critica si confonde con ciò che combatte, se l’amore estetico per la performance vince sul vigile scudo delle parole.
Sentivo due ragazzi, non molto tempo fa, disquisire di un’immagine ragionando se fosse stata o meno creata dall’intelligenza artificiale, per poi concludere con un’alzata di spalle: «e che importa? È bella!», prendendo idealmente a calci, fra un video di Tik Tok e un energy drink, gli immortali versi di John Keats: «Bellezza è verità, verità bellezza».