Codice a (s)barre

da | Lug 22, 2025 | IN PRIMO PIANO

Il sovraffollamento carcerario è uno dei maggiori problemi italiani degli ultimi anni, con dei numeri tali da far vacillare l’essenza stessa di giustizia rieducativa: il 30 aprile scorso, a fronte dei 51292 posti disponibili, vi erano ben 62445 detenuti, quindi 11153 persone in più rispetto alla capienza regolamentare, per non parlare dell’incremento dei suicidi (40 solo nel primo semestre del 2025).

Non sono state soltanto le misure emergenziali adottate durante la pandemia a peggiorare le cose ma anche i continui interventi che hanno introdotto nuovi reati, aumentato le pene e creato nuove ostatività (vedi il d.l. sicurezza); in particolare il d.l. Caivano ha consentito la custodia cautelare in carcere per lo spaccio di breve entità e precluso l’accesso alla messa in prova per i minorenni, il cui numero negli istituti loro dedicati è raddoppiato dal 2023 ad oggi.

Ma quali effetti può produrre tale sovraffollamento?

  1. Inibisce se non distrugge il fine costituzionale della pena stessa, che dovrebbe essere la rieducazione contro la recidiva;
  2. Incide negativamente sui presunti innocenti che abitano le carceri in regime di custodia cautelare;
  3. Compromette in modo evidente la sicurezza nelle strutture;
  4. Complica il lavoro di educatori, operatori sanitari e psicologi che faticano a intercettare situazioni di disagio e fragilità;
  5. Aumenta il tasso dei suicidi (91 solo nel 2024).

Non si tratta solo di un problema giuridico o di politica interna, ma anche di tutela dei più elementari diritti dei detenuti, per non parlare della negativa risonanza internazionale che sta avendo questo fenomeno, se pensiamo al recente rifiuto dell’Olanda di consegnare all’Italia un sospetto omicida, valutando inadeguate le condizioni del nostro sistema carcerario, proprio a causa del sovraffollamento e dell’alto tasso dei suicidi.

Sembra piuttosto evidente, data l’urgenza e la complessità della questione che, a fianco a interventi strutturali e di lungo periodo, debbano operarsi scelte di decompressione a breve termine che restituiscano ai reclusi condizioni di dignità e umanità che sono ormai venute a mancare.

Dati alla mano, pensare di risolvere il problema aprendo nuove carceri non è solo demagogico e dispendioso ma anche oggettivamente inattuabile: nell’ultimo anno i detenuti sono cresciuti di 1200 unità e con una capienza media per carcere di circa 300 posti, bisognerebbe costruirne 4 nuovi ogni anno, soluzione che rasenterebbe il grottesco, oltre a incoraggiare un’iper-carcerazione che mal si sposa con uno Stato democratico in senso stretto.

Le risorse pubbliche potrebbero essere spese per ammodernare le strutture esistenti, assumere educatori, medici, psicologi, mediatori culturali e assistenti sociali, ma anche nuovo personale amministrativo per gli uffici giudiziari di sorveglianza, per aumentare il numero dei magistrati di sorveglianza (attualmente poco più di duecento) e incrementare le risorse per l’assistenza legale ai non abbienti, oltre ad occuparsi dei 90 000 «liberi sospesi», e cioè quei condannati definitivi a pene fino ai quattro anni, che aspettano per anni, e in libertà, possibili misure alternative.

Occorrerebbe pensare anche a una riduzione del ricorso alla custodia cautelare, ma anche a una possibile uscita anticipata sia per chi abbia intrapreso con successo un percorso riabilitativo, ma anche per gli 8000 detenuti con pena residua non superiore a un anno.

La recente lettera (12 luglio 2025) del Presidente del Senato Ignazio La Russa, indirizzata a Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, in occasione dell’incontro-confronto tenutosi nel carcere di Rebibbia parla chiaro: «[…] le sofferenze e le difficoltà legate al sovraffollamento degli istituti di pena rappresentano, infatti, emergenze di fronte alle quali occorre un convinto cambio di passo. La dignità delle persone che formano la comunità negli istituti di pena è una necessità, anzi un obbligo […].»

Parole importanti che sembrano superare anche schieramenti ideologici o finalità elettorali, ma che potrebbero tradursi in un niente di fatto se il Governo continuerà a perpetrare una narrazione giustizialista volta al proliferare dei reati, e delle relative pene, confondendo la sicurezza con la punizione, e fingendo di non vedere come il sovraffollamento stia trasformando le patrie galere in incubatrici di recidive e criminalità.

Punire senza rieducare equivale a reprimere, come enunciava fieramente il monumentale Gian Maria Volontè in «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Elio Petri, e non si può più pensare che la soluzione a problemi sociali stratificati e complessi passi sempre attraverso la sanzione o l’incarcerazione.

Persino la Corte dei conti, nella relazione dello scorso aprile 2025, ha dichiarato che «costruire nuove carceri non è compatibile con le tempistiche della drammatica situazione di oggi».

In molti invocano l’indulto, laddove l’onorevole Giachetti ha di recente parlato di liberazione anticipata speciale, tutti provvedimenti che gioverebbero all’assistenza sanitaria, e sono in tanti (e da schieramenti antitetici) a parlare di investimenti veloci per aumentare gli organici a tutti i livelli, ma tali interventi sembrano cozzare contro una politica che si indigna pubblicamente per le deprecabili condizioni dei detenuti, ma poi parla di ergastolo come unica pena possibile per alcuni reati, criminalizza il dissenso pacifico all’interno dei penitenziari, e celebra un’immagine di polizia penitenziaria armata e violenta.

Vale la pena (anche etimologicamente) ricordare il secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione: «[…] le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

La recente rivolta nel carcere di Rieti, con 493 detenuti su 295 posti disponibili e un 32% di agenti in meno, non racconta solo di sale ricreative date alle fiamme o di scontri fisici e 5 agenti intossicati dal fumo, ma di come la violenza passi anche attraverso il silenzio e l’indifferenza delle istituzioni, fino a un imbarbarimento che è soprattutto culturale, e di come l’assenza di civiltà si trasmetta da un lato all’altro di una barricata che dovrebbe di fatto «tradursi» in terreno di confronto.

L’esempio dello Spazio Barchetta, all’interno del carcere maschile di Marassi (Genova), dove i minori dei detenuti possono incontrare i padri senza i consueti 40 minuti di procedure (inclusi cani e perquisizioni) e parlare con loro, giocare, eseguire lavoretti manuali o sketch teatrali, grazie agli undici operatori che si assumono anche il compito di mediare con le madri, racconta un’idea di giustizia fondata sulla comprensione, aperta anche al sistema scuola, e che riconosce nel minore d’un padre in carcere, una figura fragile che lo Stato fatica a tutelare.

Togliere senso al lavoro, costringere un individuo alla forzata promiscuità del sovraffollamento, non significa soltanto privarlo della propria libertà ma anche della propria identità e del relativo diritto alla solitudine, rendendolo un numero, un oggetto, un sottoprodotto di un sistema malato, un codice a (s)barre, costringendo la società stessa alla più vile delle rese: credere che sia irrecuperabile.

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