In un libro di recente uscita, «La Globalizzazione è finita» (Fazi editore, 2025), la giornalista americana Rana Foroohar, esperta di economia e finanza, parla del fallimento del paradigma della Globalizzazione che, se da un lato ha favorito la crescita di economie emergenti (su tutte quella cinese), dall’altro ha concentrato la ricchezza nelle mani di una ristretta élite, aumentando il gap fra le singole classi sociali e quello fra paesi ricchi e poveri, per non parlare dell’uso criminoso delle risorse naturali senza considerazioni a lungo termine, e della crisi delle comunità locali.
Il sorgere di populismi e nazionalismi come conseguenza politica di tale fallimento si è accompagnato agli effetti post-pandemici che hanno evidenziato la fragilità di un sistema economico eccessivamente dipendente dalle catene di approvvigionamento globali (soprattutto quella orientale), con interruzioni nelle forniture di beni essenziali, come farmaci o dispositivi medici: un’economia iper-globalizzata e senza freni che sembra destinata, per sopravvivere, a umanizzarsi, rafforzando le realtà locali e creando catene di fornitura più corte e resilienti, e un sistema di lavoro più decentralizzato.
Ma tale crisi si è abbattuta di colpo sul mondo occidentale, o i sociologi che se ne erano inizialmente occupati avevano in qualche modo presagito gli effetti a lungo termine del fenomeno in atto?
Quando, dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e con la fine della Guerra Fredda, il concetto di modernità ha iniziato a vacillare, venendo meno i presupposti su cui si era costituito, gli araldi della postmodernità (su tutti l’antropologo francese Lyotard) iniziarono a parlare di «modernità riflessiva», «modernità postindustriale», «modernità compiuta» o «seconda modernità» ma, al di là delle definizioni, tutti sembravano concordi nell’affermare che più che a una fine della modernità si stesse assistendo a una sua improvvisa accelerazione, coincidente con la sfiducia verso la sfera politica e le tradizioni, verso le metanarrazioni fino a quel momento dominanti, ma anche verso le ideologie classiche, le categorie di sviluppo e progresso, e verso l’associazionismo e la possibilità di emancipazione sociale.
Fra i maggiori studiosi della modernità «radicale» e degli effetti negativi della Globalizzazione, non si può non citare Anthony Giddens che, nel testo «Le Conseguenze della Modernità» (1990), identificava nel termine «crisi» la perfetta sintesi dell’accelerazione della modernità.
Secondo Giddens, la Globalizzazione ha innanzitutto veicolato il fenomeno del «disembedding» (letteralmente, «sradicamento»), inteso come il venir meno di radici e la costruzione di rapporti sempre più astratti, in un tempo e in uno spazio di volta in volta meno concreti e reali; l’accrescimento di valore del medium simbolico per eccellenza, e cioè il denaro, legato al suo fluire in maniera sempre più veloce, articolata e complessa, grazie alla tecnologia, si è saldato all’aumento di fiducia in sistemi tecnologicamente esperti, e non nei confronti delle persone che ad essi sovraintendono.
La genesi di un tempo «non più connesso a un dove e identificato da ricorrenze naturali regolari» ma ormai vuoto, misurabile quantitativamente e quindi standardizzato ma anche «neutralizzato», si è allacciata a un concetto di spazio disgiunto dal luogo (vedi le piattaforme social), con le istituzioni alla perenne ricerca di nuove coordinate spazio-temporali in grado di guidare le interazioni sociali.
Una delle questioni più interessanti sollevate da Giddens è quella che lui definisce «riordinamento riflessivo dei rapporti sociali», nel momento in cui l’uomo non riesce più a far riferimento a dei saperi condivisi a lui esterni, perché lo sviluppo della modernità globalizzata ha portato a una continua revisione delle convenzioni e a una destrutturazione del sapere simbolico comune, per cui si è sicuramente più autonomi e liberi nello scegliere le proprie azioni, ma anche più insicuri.
Riflessività individuale e integrazione sociale non viaggiano più in perfetta sintonia, come nelle società premoderne.
Eppure, nonostante la «radicalizzazione della modernità» sia vista da Giddens come un fenomeno essenzialmente disancorante e patologico per l’individuo postmoderno, la sua controtendenza, il «reembedding» (o ri-radicamento), apre al ricollocamento di impegni anonimi in impegni personali, una sorta di reinserimento dell’astratto nel concreto che descrive l’evoluzione sociale non come un’angosciante spirale verso nuove forme di alienazione, ma come un procedimento dialettico in cui sradicamento e ri-radicamento si sovrappongono connotando la Globalizzazione come un terreno di innesti e nuove possibili radici.
Quando si parla di Globalizzazione, e della sua analisi critica, non si può non citare il suo più celebre studioso, Zygmut Bauman, neomarxista e anticapitalista, che in uno dei suoi libri più importanti («Modernità liquida», 2000) parla della liquidità come dell’ideologia del sistema di dominio attuale, riferendosi ovviamente agli inizi del Nuovo Millennio: la società non è liquida in sé, per B., ma lo diviene sotto la spinta degli incessanti cambiamenti della modernità e questo suo attributo, che ha un’accezione assolutamente negativa, si fonda su un’eccessiva deregolamentazione, liberalizzazione, flessibilità, apertura dei mercati e su una drastica diminuzione della pressione fiscale.
Il Capitalismo «globalizzato», a differenza di quello raccontato da Marx, esclude il conflitto e la possibilità di emancipazione perché si fonda sull’illusione di essere il prodotto delle nostre libere scelte nel cammino di autorealizzazione individuale, laddove invece non ci sarebbe, per Bauman, alcuna possibilità di negarglisi.
A differenza delle società premoderne e antiche, dove la bilancia fra desiderio e azione pendeva tutta dalla parte dell’azione perché spesso, soprattutto a livello socialmente basico, non era concepibile desiderare una vita migliore, nella modernità globalizzata esiste una distinzione fra individualismo de jure («io posso desiderare tutto ciò che voglio») e individualismo de facto («in concreto non sono nelle condizioni di realizzare quasi nessuno dei miei desideri, ma non posso prendermela con altri se non con me stesso»).
Con un capitale sempre più fluido e lontano sia dalla forza-lavoro che dal lavoro stesso, e nel dominio dell’istante su tutto ciò che è durevole e che è divenuto persino un handicap (anche l’immortalità viene svalutata), non resta che sostituire a quelle che Bauman definisce «Comunità-guardaroba», da indossare all’occorrenza senza alcun reale senso di appartenenza, un incremento della sfera e del potere pubblico, cercando di restaurare le reti sociali e gli organismi di partecipazione collettiva, la cui erosione è stata la premessa e al tempo stesso la conseguenza della «liquefazione generale».
Sia Giddens che Bauman avevano previsto in largo anticipo i danni della Globalizzazione, fornendo come antidoto il potenziamento dell’intersoggettività, delle realtà locali e dei rapporti concreti, della sfera pubblica e di un’idea di lavoro dove alla finta libertà di scelta e all’apparente espansione della sfera di autonomia, si sostituissero la concretezza dei rapporti umani e l’equivalente rafforzamento delle adiacenti realtà sociali.
Se la Globalizzazione è stata un’accelerazione della modernità, la «post» o «neo» globalizzazione sarà (o cesserà di esistere) un suo brusco rallentamento nel pieno recupero del concetto di umanità.