Nomofobia: la generazione ansiosa

da | Gen 14, 2025 | IN PRIMO PIANO

Qualche anno fa ci siamo già occupati, durante lo scenario post-pandemico, della F.O.M.O. («fear of missing out»), letteralmente la paura di essere tagliati fuori, espressione riferita a un contesto prettamente digitale e cioè quando non si può più fare a mano di postare, commentare o verificare che un nostro contenuto sia stato apprezzato, condiviso o ripostato.

Nell’anglofono fiorire di sempre nuovi acronimi tesi a fotografare la realtà (spesso patologica) del mondo virtuale, la «nomofobia» non rappresenta un ulteriore orientamento di genere sessuale ma, etimologicamente, la «no-mobile-phone-phobia», e cioè la paura di restare troppo a lungo separati dal proprio smart-phone o, più genericamente, disconnessi: legate a questo timore social(e), tra l’altro non ad esclusivo appannaggio dei più giovani, sono emerse altre micro-patologie come l’apnea digitale, e cioè il trattenere il respiro durante la digitazione, che spesso si trasferisce nella vita reale sotto forma di apnee notturne.

Se è vero che il DSM (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ha incluso la dipendenza dai videogiochi dal 2018 ma non ancora quella dalla Rete, è altrettanto vero che il «digital detox» è nel sito dell’Agenda digitale europea e in quello di moltissimi istituti sanitari: il perverso ingranaggio dell’infinite scrolling, dei like e dei retweet, si fonda su un meccanismo di ricompensa che agisce sulla dopamina e dona una dipendenza non meno grave di quella associata a droghe, alcol o ludopatia.

Vivere costantemente connessi, ed anche quando non lo siamo convergere alla Rete come retropensiero, introiettando l’on line-filosofia, ci ha trasformati in lavoratori non retribuiti, pura merce, o individui ingannati dalla gratuità di servizi che non sono mai tali perché, quando un prodotto è gratis, il prodotto diviene il consumatore stesso.

Un recente studio dell’UNESCO ha dimostrato che la media dei bambini francesi sotto i due anni passa già tre ore di fronte allo schermo di uno smartphone.

Opporsi criticamente a questa deriva non è sintomo di luddismo snobismo o passatismo, perché siamo di fronte a una rivoluzione onnipervasiva, in grado di modificare ogni aspetto del nostro vivere e agire sociale, penetrando anche e soprattutto nella dimensione fisica: non va dimenticato che qualsiasi innovazione tecnologica se elimina il suo precedente può trasformarsi in uno strumento di controllo sociale.

Il sociologo francese Gérald Browner ha scritto: «[…] quali sono i Newton, gli Einstein o i Darwin che non potranno sviluppare appieno le proprie potenzialità intellettuali perché parte della loro immaginazione sarà stata assorbita da zuccherini mentali?»; nell’analizzare le centinaia se non migliaia di like e commenti che ogni giorno si registrano su Facebook o YouTube non si può non pensare ai costi (individuali, sociali e opportunità) di questo fenomeno sempre più virale, riflettendo su come tali risorse potrebbero essere altrimenti impiegate.

Al capitale sociale, dato dalla conoscenza diretta dell’altro, si è sostituito il capitale social, raccolto di una vita editata più che vissuta, con un evidente problema di «digital divide» che sembra agire in maniera inversamente proporzionale alle risorse di cui si dispone, visto che alcune ricerche hanno dimostrato che a passare maggior tempo sugli smartphone sarebbero proprio i ragazzi in condizioni più disagiate.

Nell’articolo che anticipava il proprio libro, «la generazione ansiosa» (edito da Rizzoli in Italia), lo psicologo sociale Jonathan Haidt analizzava come negli Stati Uniti, fra il 2010 e il 2019, il tasso depressivo e l’ansia fra gli adolescenti tra i 10 e i 19 anni fosse salito del 50% e quello dei suicidi del 48% (fra le ragazze tra i 10 e i 14 anni del 131%), per non parlare di incrementi numerici molto simili in termini di anoressia, bulimia, autolesionismo e schizofrenia.

L’analisi di Haidt, più letteraria che scientifica, ma corroborata da basi statistiche e testimoniali imponenti, punta l’indice (anche bibliografico) sulla scomparsa del gioco libero senza la supervisione degli adulti, a suo avviso essenziale a formare i futuri elementi della società nelle dinamiche di ricomposizione dei conflitti, sul fare gruppo, perseguire obiettivi comuni, gestire le sconfitte e via dicendo: l’allentarsi dei legami di vicinato, l’allungarsi delle giornate a scuola, la sparizione del vivere comune in grado di tutelare i nostri e i figli degli altri, più un certo tipo di allarmismo giornalistico, hanno contribuito a creare un vero e proprio mito della sicurezza fondato su una cultura genitoriale iperprotettiva.

Questa sorta di invisibile ma pressante scudo, in parte responsabile anche della rottura del patto genitori/insegnanti a scuola, ha inaugurato il binomio «iperprotezione fisica/abbandono digitale», per cui la maggior parte degli adolescenti sono più che seguiti (o meglio, pedinati) nella vita reale, ma abbandonati a sé stessi nell’anomia della Rete e dei social network, nei quali tra l’altro si rifugiano per sfuggire proprio all’alta sorveglianza dei genitori.

Se l’iper-utilizzo degli smartphone riguarda anche gli adulti, al punto che l’acronimo L.A.T. (living apart together), per le coppie che vivevano in case diverse è mutato in «living alone together», e cioè abitare da estranei sotto lo stesso tetto a causa dell’uso immersivo dei cellulari, tale deriva nei più giovani ha agito e agisce sui disturbi del sonno, sulla ricerca di un lavoro, sulle dipendenze, sul timore dei rapporti sincronici, sulla frammentazione dell’attenzione e sulla sessualità.

Il calo dell’attenzione si desume «a contrario» dal tempo di lettura degli articoli, ormai indicato quasi ovunque, ma anche dall’esplosione di Tik Tok, dei reel e dalla compressione di video musicali ormai ridotti solo a uno o due minuti; per ciò che concerne invece la sfera della sessualità, colpisce l’incremento di omosessualità, bisessualità e transessualismo nelle ragazze più giovani, più sensibili e maggiormente colpite dai giudizi estetici, e quindi «virate» verso altri lidi non per una reale confusione o mutamento di genere, ma solo (come sostiene Haidt): «per tenere aperte, inconsciamente, un’uscita di sicurezza».

La pornografia gratis, l’eccessivo utilizzo di videogiochi, e la precoce educazione (diseducazione) sessuale tramite la Rete hanno invece creato un’inibizione della libido negli adolescenti maschi, al punto che secondo una ricerca del 2011, un terzo dei giovani giapponesi tra i 16 e i 19 anni, non sarebbe più interessato al sesso: sono quelli che la scrittrice e giornalista nipponica Maki Fukasawa definiva nel 2006 «erbivori», differenziandoli dai «carnivori» (sessualmente attivi).

Secondo Haidt, i danni sociali e psicologici dati da questo mix di culto della sicurezza genitoriale e abbandono digitale, uniti al massivo uso degli smartphone, sono ben conosciuti dalle piattaforme che avrebbero posto in atto un’ (in)volontaria «riconfigurazione dell’infanzia», e se è vero che fra l’aprile e il maggio 2024 Meta è stata chiamata in causa per ben due volte dalla Commissione Europea per capirne il coinvolgimento, diretto o indiretto, in svariate patologie puberali, effetti «rabbit hole», e reale monitoraggio dell’età, è altrettanto vero che molto e più è possibile e doveroso fare.

Secondo lo psicologo sociale bisognerebbe procedere con azioni collettive alla Durkheim, visto che in tantissimi si sono detti disposti a dismettere gli smartphone «se lo facessero anche gli altri; fissare una maggiore età digitale (16 anni?) e far sì che siano le piattaforme ad occuparsi in concreto della sua effettiva verifica potrebbe essere un inizio, come contrastare il «tecnofeudalesimo» di Big Tech vaticinato da Varufakis, o impedire l’uso del cellulare durante l’intero orario scolastico (ma provvedendo all’approvvigionamento di Lim, tablet e via dicendo), il tutto incentivando l’utilizzo dei «dumb phone», e cioè dei telefonini a tecnologia basica ispirati agli anni Novanta, che non prevedono né Google né i social network.

L’educazione all’uso degli smartphone e al non abuso dei social è la parola-chiave, così come il fissare dei parametri per l’I.A., poiché attività che assorbono così tante ore nell’arco di una giornata non possono più rientrare nel novero dell’intrattenimento, e società con miliardi di utenti (e fatturato) non sono più soltanto aziende private ma soggetti politico-sociali di rilevanza internazionale.

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