Femminicidio e violenza di genere: un quadro normativo

da | Mar 26, 2024 | IN PRIMO PIANO

La parola «femminicidio» inizia a circolare negli ambienti del femminismo militante sin dagli anni Settanta ma solo negli ultimi dieci/quindici è entrata nell’immaginario collettivo e nel glossario dei maggiori dizionari nazionali: «l’uccisione di una donna o di una ragazza [ma anche] qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetrarne la subordinazione o di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte». (Devoto-Oli, 2009), ma anche lo Zingarelli ne dà una definizione a partire dal 2010, mentre la Treccani parla di «femmicidio» o «femicidio» sin dal 2012, e nel 2023 la definisce parola dell’anno.

Al di là della semantica, che nella sua costante indagine sulla radice delle parole rivela la problematicità che le sottende, secondo l’International Federation of Journalist è l’Africa a detenere il primato dei femminicidi (20 000), seguita da Asia (18 400), Americhe (7900), Europa (2300) e Oceania (200), la maggior parte dei quali per mano di partner, ex o congiunti, ma misurare tali dati non è semplice e lo dimostrano le difficoltà incontrate da «The Statistical framework for measuring the gender-related killing of woman and girls» dall’anno della sua istituzione (2022) da parte della Commissione statistica delle Nazioni Unite, o il lavoro svolto in Italia dall’Istat, una volta ricevuti i numeri della Direzione Centrale della Polizia Criminale.

Non basta, per definirsi «Femminicidio», che la vittima per mano di un uomo sia una donna ma che l’assassinata lo sia stata in quanto donna, e quindi i casi vanno analizzati in modo critico e individualmente, anche tenuto conto del fatto che questo specifico reato non è presente in quasi nessun codice penale, e che nel dibattito sulla sua pertinenza alcune personalità illustri e intellettualmente accorte (come Clio Napolitano nel 2012) ne abbiano messo in discussione la liceità, denunciandone una certa «intonazione di disprezzo».

Uno dei primi documenti ad occuparsi nel dettaglio della prevenzione e della lotta contro la violenza domestica e nei confronti delle donne è stata la Convenzione di Istanbul, aperta l’11 maggio 2011, firmata da 32 stati e ratificata da 8 (tra cui l’Italia con la legge n. 77/2013), e quindi non ancora entrata in vigore: i suoi 81 articoli divisi in 12 capitoli vengono introdotti da un preambolo dove si parla della CEDAW, una convenzione ONU del 1979 che così definiva la discriminazione contro le donne: «ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia lo scopo o l’effetto di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza con gli uomini, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo.»

Sempre nel preambolo della Convenzione, si parla di come la CEDAW abbia istituito nel 1999, con un protocollo opzionale, un’apposita Commissione in grado di prendere in carico le denunce (individuali e di gruppo) nell’ambito della propria giurisdizione, e di come dal 2009 esista un vero e proprio database sulla violenza contro le donne in grado di analizzare quali misure adottino i paesi membri dell’ONU per contrastare tale tipo di violenza, ma anche quali informazioni mettano a disposizione delle vittime, il tutto in una cornice che inquadra il fenomeno come una manifestazione di rapporti di forza storicamente diseguali tra i generi, aspirando a costruire un’Europa libera da tale disparità.

Entrando più nel dettaglio della Convenzione di Istanbul, all’articolo 1 si stabilisce che i suoi precetti debbano essere applicati sia in tempo di pace che durante i conflitti, perché è soprattutto durante le guerre che si infliggono le maggiori violenze contro le donne, mentre all’articolo 4 si sancisce che «ogni individuo ha il diritto di vivere libero dalla violenza, sia nella sfera pubblica che privata», e che quindi la lotta per la parità dei sessi sia l’unico antidoto possibile alla discriminazione di genere e ai femminicidi.

La parte più strettamente pragmatica è quella relativa ai risarcimenti delle vittime per atti di violenza commessi da soggetti non statali (articolo 5), che possono portare ad indennizzi, riabilitazioni o riparazione dei danni, o quella relativa agli indennizzi statali (articolo 30), se la riparazione non è garantita da altre fonti, mentre assume un valore universale e trasversale la sezione che si occupa della prevenzione e che dispone, al di là delle misure legislative, campagne di sensibilizzazione, programmi educativi e formazioni di adeguate figure professionali di settore.

Centrale è poi la protezione delle vittime, inastata sulla creazione, nazionale e internazionale, di strutture ricettive adeguate e su una rete informativa in grado di raggiungere le persone colpite, soprattutto nel momento di maggiore difficoltà, quando non hanno la lucidità di prendere alcuna decisione; tali strutture possono essere generali, e quindi legate a strutture sanitarie o alla Pubblica Amministrazione, specializzate (case rifugio integrate a linee telefoniche di sostegno h24) o ad hoc, come quelle di specifico aiuto per le vittime di violenze sessuali.

La Convenzione individua anche reati perseguibili penalmente, in presenza di intenzionalità (stupro, mutilazioni genitali ecc), cercando anche di colmare vuoti legislativi internazionali, come quello sullo stalking o sull’adescamento ai fini di matrimonio forzato, e cioè quando una persona viene condotta in un paese estero e obbligata a sposarsi, reato che viene riconosciuto come tale anche se il matrimonio poi di fatto non si verifica; un importante passaggio del testo è inoltre quello che denuncia come inammissibili talune attenuanti culturali a femminicidi e/o violenze, quali «l’onore» e simili.

Una particolare tutela viene riconosciuta alle donne migranti, che potranno usufruire in caso di violenze di genere di uno status di residenti indipendenti rispetto al partner/coniuge, e alle donne richiedenti asilo, che beneficeranno del diritto di non respingimento, se l’offesa da loro subita assumerà l’esiziale forma della persecuzione: una funzione determinante, nel seno della Convenzione di Istanbul, è quella svolta dal GREVIO, acronimo del gruppo di esperti incaricato, tramite questionari, visite e inchieste, di monitorare la corretta attuazione degli standard previsti per i singoli stati firmatari.

In Italia la ratifica della Convenzione di Istanbul ha portato a dei precisi adeguamenti normativi: per ciò che concerne lo stalking (articolo 612 della legge del 2013), si è dato particolare rilievo a quello informatico e telematico, consentendo le intercettazioni telefoniche e definendo i casi di irrevocabilità della querela, oltre che introducendo l’ammonimento del questore, ma in caso di violenza domestica è previsto anche l’allontanamento dalla residenza familiare, il controllo a distanza tramite braccialetto elettronico, il gratuito patrocinio difensivo per le vittime (al di là del reddito), la priorità assoluta d’udienza e le modalità protette di assunzione delle prove e delle testimonianze di minori o adulti vulnerabili.

Il riconoscimento penale del femminicidio come categoria a sé stante potrebbe portare la criminologia ad un livello più elevato, trasformando la violenza di genere da argomento clickbaiting per definizione, a vero e proprio stigma sociale e frantumando il vero maschilismo che è sempre indotto e femminile, così come l’autocensura è la forma più strisciante e pericolosa di censura.

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