«Non è un bere disperazionale ma posturale», sentenzia Pierpaolo Capovilla sul palcoscenico d’un teatro, mentre racconta col regista questo film (de)generazionale intitolato «Le città di pianura».
Presentato a Cannes 78, nella sezione un Certain regard, girato in 16 mm e 35 mm («perché la pellicola crea una reazione «fisica» negli spettatori») dal sorprendente feltrino Francesco Sossai, al suo secondo lungometraggio dopo «Altri Cannibali» del 2021, con le musiche country folk in dialetto del turbo-veneto Krano e il montaggio di Paolo Cottignola, storico collaboratore di Olmi ma soprattutto di Mazzacurati, altro esegeta del Nord-est, il film schiera un cast così incongruo da rasentare la perfezione.
Sergio Romano nei panni di Carlobianchi, tutto attaccato, o Charles White come lo chiama il compagno di sbronze Doriano detto Dory, alias Pierpaolo Capovilla, voce storica degli «One dimensional man», «Il teatro degli orrori» e «I cattivi maestri», pregevole solista, marxista convinto, ma soprattutto bevitore seriale ça va sans dire, e poi c’è Eugenio detto Genio, il burbero e bravissimo Andrea Pennacchi, con un prezioso cameo di Roberto Citran, nei panni dell’imprenditore Fadìga.
Ago della bilancia di questo sgangherato road movie è l’astro nascente del cinema italiano Filippo Scotti («È stata la mano di Dio») che, pur essendo napoletano, «è un gran bravo ragazzo» e «un gentiluomo del meridione».
Scritto a quattro mani proprio da Sossai con lo sceneggiatore Adriano Candiago, senza mai rileggere né pensare in anticipo gli attori, «Le città di pianura» si ispira a una leggendaria sbronza consumata circa dieci anni prima del film proprio dal regista con un amico e uno studente di architettura, ovviamente in Veneto, ma non nell’immaginaria Cornia del plot.
Perché in Veneto, se non s’era capito, si beve molto, anzi, come dice sempre Capovilla: «si scivola al bar».
TRAMA
Il film si apre come il più classico dei racconti bukowskiani, e cioè con due ubriaconi di mezza età che devono andare a riprendere un loro amico in aeroporto ma non si ricordano di quale aeroporto si tratti, quindi, vagano alla ricerca del bicchiere della staffa, quello che loro definiscono mitologicamente «l’ultima».
Tra posti di blocco evitati a fari spenti, flashback in disordine e la definitiva filosofia del mondo sulla punta della lingua, il Dory e il Carlobianchi incontrano Giulio (Filippo Scotti), studente d’architettura timido e segretamente innamorato d’una ragazza veronese che forse non lo ricambia, e lo trascinano al termine della notte, e della bottiglia, con loro.
Mentre la strada si snoda sempre più veloce, e storta, fra bar, bacari, autogrill e ristoranti (ormai chiusi) dove si mangerebbe la polenta con lumache definitiva, birra, vino e superalcolici si susseguono senza soluzione di continuità e i due cialtroni professionisti si raccontano al cialtrone improvvisato, tracciando le pietose coordinate d’un fallimento più che generazionale.
La crisi del 2008, che ha ridimensionato aspettative e sogni del duo, ponendo fine anche a un illecito smercio d’occhiali che aveva loro consentito un discreto stile di vita, oltre che la Jaguar ormai rattoppata su cui viaggiano, ha spinto l’amico Genio (Andrea Pennacchi) a fuggire in Argentina per smarcarsi dal carcere, per far ritorno a casa solo dopo la prescrizione del reato.
La perdita del «bottino», sepolto in un terreno su cui nel frattempo hanno edificato una casa, è solo uno dei momenti esilaranti del film, così come la scena in cui Doriano e Carlobianchi si fingono architetti sfruttando le competenze di Giulio, solo per scroccare da bere e un po’ di contante a un nobile decaduto che è costretto a svendere la villa di famiglia.
L’epilogo al memoriale Brion, tomba ad Altivole progettata da Carlo Scarpa per celebrare il fondatore della Brionvega, anticipa un finale monicelliano coi due etilisti che tallonano il treno su cui Giulio viaggia verso l’amore, o verso il futuro che a loro è stato strappato (o mai concesso).
SIAMO TROPPO VECCHI PER CRESCERE
Nella villa rinascimentale (villa Roberti a Brugine) dove dovrà passare la Lisbona/Treviso/Budapest, altra geniale supercazzola di Sossai, un Giulio assorto commenta un affresco del Veronese definendolo un «capriccio» perché collega le Alpi direttamente alla laguna, eliminando il paesaggio intermedio, e cioè proprio la pianura in cui vagano senza meta i due godottiani Dory e Carlobianchi.
Novelli Vladimiro ed Estragone (ad alta gradazione alcolica), i due amici assistono alla «americanizzazione» del Veneto e alla trasformazione del paesaggio in infrastruttura, della terra in territorio, per quello sviluppo economico, ormai svanito, mai evoluto in progresso sociale, ai danni di un’antropologia ormai ridotta alla sua sineddoche da sala slot o bar-ritrovo per anime perdute.
Il riferimento più scontato è «Il Sorpasso» di Dino Risi, anche se a tinte meno drammatiche e con una Jaguar al posto della storica Lancia, ma c’è molto Kaurismaki nella caratterizzazione dei personaggi e il già citato Mazzacurati per la fotografia e gli esterni; il pathos tende al monicelliano con una spruzzata dei fratelli Coen, ma manca qualcosa alla sceneggiatura per sfiorare quella pesantissima leggerezza.
L’apertura con l’arrivo in elicottero del Cavaliere che premia il neopensionato Sossai (omonimo del regista) con un Rolex davanti ai colleghi, fingendo di ricordare i nomi della moglie e della figlia, fieramente analfabeta («non mi chiami dottore che ho la terza media») è grande cinema, come la parata di edifici pavesati di «Vendesi» che fanno molto Vitaliano Trevisan, per non parlare della mini statua della libertà di fronte a un country bar, ma il frammento più iconico è quello in cui i tre ridisegnano il Veneto su dei tovaglioli da bar («Rovigo non esiste»).
Sono analogici questi barflies con la bestemmia in canna e la grappa prime uve nello stomaco, così come è analogico il regista, e a questo punto anche la vita.
Road movie sgrammaticato che oblitera i cliché sul Veneto e funziona proprio per questo, «Le Città di pianura» dimostra che (non) si esce vivi dagli anni Novanta e che la «legge dell’utilità marginale decrescente» spiegata dal Carlobianchi ragioniere, e cioè che l’utilità di un bene di consumo decresce con l’uso, non vale con l’alcol perché non si beve per sete, ma per qualcosa di residuale, inconscio…posturale, tornando a Capovilla.
Alla dine il Dory se la ricorda la definitiva filosofia del mondo ma non ce la dice e mentre smaltisce la madre di tutte le sbronze, in shorts, cappotto e ciabatte di plastica, a un vecchio lì a fianco che esclama «ma quando crescerete?» risponderà, col volto disegnato da Andrea Pazienza e la voce da Carmelo Bene sopravvissuto a sé stesso: «Siamo troppo vecchi per crescere».





