The Brutalist: l’architettura dell’esilio

da | Mar 18, 2025 | MONDOVISIONE

Alla terza prova come regista, il filmaker ed ex-attore trentasettenne Brady Corbet conferma le proprie ambizioni autoriali firmando un’opera-monstre di ben 215 minuti, costata «appena» dieci milioni di dollari (una cifra decisamente contenuta rispetto agli standard hollywoodiani) e realizzata in ben sette anni di lavorazione, anche se l’idea albergava in lui già dal 2015, anno d’uscita del suo, celebratissimo, esordio: «L’Educazione di un leader».

«The Brutalist», coprodotto proprio da Corbet, e sceneggiato con la compagna e sodale Mona Fatvold, dopo aver vinto il leone d’argento come miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia, incassa tre Golden Globe e altrettanti Oscar (miglior attore, migliore colonna sonora originale e migliore fotografia) su dieci candidature, riesumando il fantasma polanskiano de «Il Pianista» (Oscar 2002), e facendo vincere la seconda statuetta proprio allo scheletrico e kafkiano Adrien Brody.

Ispirato a «La Fonte meravigliosa», film del 1949 di King Vidor, storia di un architetto ortodosso e privo di compromessi, ma anche a «Il Petroliere» di Paul Thomas Anderson e a tutta la filmografia di Tarkovsky, «The Brutalist» sembra ammiccare all’algida estetica di maestri quali Haneke o Lars Von Trier, autori con cui il giovane Corbet ha recitato, suggendone probabilmente il distacco letterario e una certa inclinazione alla solennità.

Calibrate e funzionali tutte le prove attoriali ma con una nota di merito a Guy Pearce, in grado di donare credibilità a un personaggio stratificato e complesso, metafora vivente del finto mecenatismo e della posticcia ambizione culturale di alcuni capitalisti a stelle e strisce, mai realmente in grado di riscattarsi dal volgare pragmatismo e dall’ipocrisia borghese della loro condizione sociale.

Le immagini anni Cinquanta, col formato Vista Vision, e cioè una pellicola da 35 mm ruotata in modo da raddoppiare la risoluzione, esaltano l’imponenza di uno sguardo assoluto e l’impotenza, fisica ed esistenziale, del suo protagonista.

TRAMA

Suddivisa in tre tempi, con un intervallo da quindici minuti pensato come parte integrante dell’insieme, la pellicola racconta l’epopea di László Tóth, ebreo errante di origini ungheresi scampato a Buchenwald e sbarcato ad Ellis Island nel 1947, alla ricerca di un lavoro dignitoso e del ricongiungimento con la nipote e la compagna Erzsébet, scampate a loro volta agli orrori di Dachau, ma ancora confinate in Europa.

L’amico Attila, che ha cambiato il cognome in Miller sposando la cattolica Audrey, lo assume nel suo negozio di mobili a Filadelfia sfruttandone la pregressa esperienza d’architetto, ma quando i due rimoderneranno la biblioteca del padre di un facoltoso cliente, provocandone la furia per l’inattesa sorpresa, László sarà costretto ad andarsene senza nemmeno essere retribuito, subendo tra l’altro le ingiuste accuse di molestie da parte della moglie di Attila.

Questa prima parte («L’Enigma dell’Arrivo»), lo vede diventare spalatore di carbone, operaio edile ed eroinomane insieme al suo nuovo amico di colore, Gordon, finché Harrison Van Buren, il tycoon che aveva inizialmente denigrato la biblioteca da lui ristrutturata, non lo ricontatterà per offrirgli un lavoro, essendosi nel frattempo informato sui suoi trascorsi di rinomato designer e architetto nel Bauhaus.

Il Nostro dovrà creare un monumentale centro ricreativo polivalente intitolato alla memoria della madre di Harrison, recentemente scomparsa, un agglomerato brutalista realizzato in materiali essenziali, quali calcestruzzo e cemento, completamente privo degli elementi ornamentali che la locale comunità, prevalentemente cattolica, vorrebbe.

Il secondo tempo («Il nocciolo duro della bellezza», dal 1953 in poi), racconta del lavoro di László al complesso edilizio e dell’arrivo negli Stati Uniti di Erzsébet (confinata su una sedia a rotelle per denutrizione e osteoporosi) e della nipote Zsófia, chiusa in un gelido silenzio post-traumatico; un incidente molto grave farà sospendere i lavori, che riprenderanno qualche anno dopo, ma un terribile episodio avvenuto nella cave di marmo di Carrara, e reso pubblico proprio da Erzsébet, getterà la famiglia Van Buren nello scandalo.

L’epilogo alla Prima Mostra Internazionale di architettura a Venezia svelerà al mondo cosa si celi davvero dietro le monumentali opere di Tóth.

CONTA LA META NON IL VIAGGIO

Secondo la visione di László (e quindi di Corbet, visto che non si tratta di un personaggio realmente vissuto), il brutalismo è la risposta, estetica e fenomenologica, al non senso della vita, in quanto i lugubri cubi di cemento «sono, in quanto sono» e non hanno alcun bisogno di rappresentare niente, se non di trasfigurare l’incubo dei campi di concentramento, vestendone solo apparentemente le funzionali e angoscianti geometrie, ma con una domotica che allarga gli spazi verso l’alto e scava abissali fondamenta.

Qualcuno ha criticato, oltre all’eccessiva lunghezza del lungometraggio, l’imperturbabilità blasé di Brody e il climax quasi «a tema», soprattutto nella parte finale, ma in realtà entrambi i fattori giocano a favore di un ibrido la cui complessità interseca un dato storico con uno squisitamente umano: la diaspora ebraica diventa condizione di sradicamento universale e non c’è Israele né Itaca alla fine dell’inquieto viaggio di questo Ulisse.

Dietro il camaleontico Van Buren, e dietro tutti i suoi elogi sulla natura stimolante delle conversazioni coi Tóth, si nascondono lo xenofobo disprezzo per chi ha qualcosa di puro da serbare (e creare), un fastidio che diviene aperto dissapore, squallida ironia e persino abuso sessuale come esercizio di potere grettamente classista.

Le immagini di repertorio di una Pennsylvania produttiva, vero e proprio motore d’America, contrastano con l’immobilità atemporale dei lavori di László, al punto che il presunto «sogno americano» non sembra così distante dalla follia nazista, in quanto fondato su un’impossibile integrazione e su un mimetico sfruttamento di stampo coloniale.

Brody merita l’Oscar (ma non meno di Chalamet in «A Complete Unknown»), e The Brutalist molte ri-visioni per afferrarne la portata generale, e se è vero che la seconda parte perde d’essenzialità sfumando in un «Festen» qualsiasi, è altrettanto vero che lo stile di Corbet è riconoscibile e già maturo: la sua prossima prova parlerà di manierismo o consacrazione.

A volte il proprio personaggio, con tanto di ossessioni e liturgie, può divenire una prigione perché, come diceva Goethe (citato nel film): «nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo».

Un’ultima considerazione: si è parlato molto, e in chiave quasi sempre negativa, dell’intelligenza artificiale utilizzata per correggere i difetti di pronuncia dell’ungherese di Brody, eppure al di là delle sterili polemiche, se l’autotune nasce per smussare i difetti di intonazione del pop e solo dopo diviene trademark della trap, l’AI è decisamente più pericolosa in sottrazione, come in questo caso, che non nelle sue declinazioni più massimaliste e scoperte.

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