«Tutto quello che conta davvero sembra accadere al di fuori dell’Italia»: inizia così il cinquantottesimo rapporto Censis sulla situazione sociale del paese, uscito il 6 dicembre scorso, ed anche se sembra l’incipit di un romanzo distopico o l’arrabbiato aforisma di un moderno Bianciardi, colonne e colonne di dati si pongono a sostegno di questa poco ottimistica tesi.
Il 49,6% degli italiani ritiene che il proprio futuro (e quello della nazione) sarà condizionato dal cambiamento climatico e/o dagli eventi atmosferici disastrosi; il 46% lo ritiene profondamente legato alla guerra in Medio Oriente, il 45,7% alle crisi economico-finanziarie globali, il 45,2% ritiene che sarà determinante il conflitto Russia-Ucraina, il 35,7% le migrazioni internazionali, il 31% la guerra commerciale internazionale, con particolare riguardo alle tensioni fra Stati Uniti e Cina e, infine, il 26,1% pensa che non si possa prescindere, nel tentare oracoli a medio o lungo termine, dagli stravolgimenti digitali e tecnologici.
La sintesi del Censis, fondata proprio sulla tassonomia di queste paure, racconta di una vera e propria «sindrome italiana» di continuità nella medietà, e cioè senza picchi entusiasmanti nei cicli positivi, né pesanti cadute nei cicli negativi, una sorta di indolore «galleggiamento» nel quale «ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti.»
È chiaro che tale analisi a tutto campo non possa non iniziare dal fattore economico, visto che se nel ventennio 1963/1983 il Pil generale era cresciuto del 117,1% e quello pro capite del 96,7%, e nel ventennio 1983/2003 quello generale del 48,4% e quello pro capite del 46,2%, nell’ultimo ventennio (2003/2023) il Pil generale ha conosciuto una crescita di solo 5,8 punti percentuali, e quello pro capite di 3,0: in buona sostanza negli ultimi vent’anni il reddito disponibile lordo pro capite si è ridotto del 7%, e questo, al di là delle motivazioni e delle infinite variabili in gioco, non può non influire sulla percezione del futuro di milioni di connazionali.
La sfiducia nella politica, sempre più intrisa di retorica e distante dalle istanze sociali (e ulteriormente indebolita dal ridimensionamento dell’antipolitica, istituzionalizzata o evaporata) si è concretizzata nel più alto tasso d’astensionismo della storia della Repubblica Italiana (51,7% alle europee del 2024), ma si rivela anche attraverso l’opinione del 55,7% degli italiani, che ritengono i cortei di protesta e le manifestazioni di piazza completamente inutili, per non parlare della percentuale quasi plebiscitaria (84,4%) che pensa i politici attenti solo al proprio tornaconto personale, o il 68,5% che sentenzia la fine delle democrazie occidentali liberali.
Questo nuovo spengleriano «tramonto dell’occidente» (il 70,8% degli intervistati attribuisce la crisi globale proprio all’arroganza occidentale), porta il 66,3% a dare la colpa dei conflitti in atto proprio al Nord e all’Ovest del mondo, col 51,1% che ne immagina l’imminente fine per mano di Cina e India, e il 71,4% che punta l’indice specificamente contro l’Ue, un guscio vuoto privo di significato e destinato a scomparire se non rivoluzionato da un riformismo radicale: la subalternità dell’Unione Europea nei recenti focolai bellici proprio alle sue porte, diviene sinonimo dell’impotenza di tutti gli organismi internazionali a fronte di sconvolgimenti trasversali che, nel venir meno dell’autorità degli Stati Nazionali, dovrebbero invece guidare e orientare politicamente.
Nel frattempo, nel crollo della meritocrazia e a causa dell’immobilismo sociale percepito, agli storici conflitti di classe si sono sostituiti quelli identitari; il 57,4% degli italiani si dichiara contrario ad abitudini o regole diverse dal tipico modello italiano (vedi il velo islamico), mentre il 38,3% si oppone a chiunque voglia facilitare l’ingresso dei migranti e il 29,3% a chi abbia una visione «non tradizionale» di famiglia; il 21,8% è ostile a chi crede in un’altra religione, il 21,5% a chi è di diversa etnia, il 14,5% a chi ha un differente colore della pelle e l’11,9% a chi abbia un diverso orientamento sessuale (il 15,3% ritiene ancora l’omosessualità una patologia genetica).
Se il 13,1% ritiene l’italianità dipendente da determinati tratti somatici, regredendo a una visione quasi lombrosiana, il 57,4% la attribuisce a una linea di discendenza diretta, e il 36,4% alla religione cattolica, per non parlare di chi, drammaticamente (9,2%),, scomoda il fattore genetico anche per la propensione criminale.
Questa sorta di cristallizzazione del modello italiano, espressione traumatica di una sindrome d’accerchiamento o di uno stato d’assedio, cozza notevolmente col milione e mezzo di nuovi cittadini, prima stranieri poi integrati negli ultimi dieci anni, e col record di cittadinanze concesse nel 2023 proprio dal nostro paese: esiste evidentemente una narrazione fondata sulla dialettica amico-nemico e sulla polarizzazione politica, che crea un distacco incolmabile, e insondabile, fra il paese reale e una sua certa rappresentazione tendenziosa.
Mentre il turismo (o meglio, l’overtuorism) levita, soprattutto in piazze come Venezia e Roma, e adesso vedremo cosa accadrà col Giubileo, l’industria cresce mentre latita il terziario, anche se l’unanime coro di tutte le aziende è la mancanza di personale, dai cuochi ai camerieri, passando attraverso elettricisti e idraulici, per non parlare dell’intero comparto sanitario, ormai avviato a un abbandono generazionale che confina con l’esistenziale.
Se le lacune di cultura generale (non sapere la data dell’Unità d’Italia, chi fosse Mazzini o chi abbia scritto la Divina Commedia) muovono al sorriso, per quanto amaro, le difficoltà d’apprendimento dell’italiano (un bimbo su cinque alla primaria, il 40% dei ragazzi che finiscono la terza media, e il 43% di chi termina le superiori) spostano i riflettori del rapporto Censis sul suo vero nucleo tematico, e cioè i giovani.
L’89,8% dei giovani fra i 18 e i 34 anni è certo di non arrivare mai alla pensione, il 51,8% soffre di ansia e/o depressione, il 32,7% di attacchi di panico, il 18,3% è chiuso nel recinto dei disturbi alimentari, uno su tre dichiara di essere già stato in terapia, e il 16,8% assume abitualmente sonniferi o psicofarmaci; è vero che questi dati vanno incrociati con l’aumento di laureati, ricercatori o «expat» andati coraggiosamente all’Estero per meglio spendere le conoscenze acquisite in patria, ma è ovvio che lo scenario descritto dal 58emo rapporto Censis è tutt’altro che incoraggiante.
Non è di certo con misure repressive, né con un’antiquata grammatica politica che si uscirà da questo nichilismo intergenerazionale, facile preda di complottismi, fake news e semplificazioni culturali, ma con una programmazione educativa seria e finalmente a lungo termine, che ridia valore al lavoro, non come semplice mezzo di sostentamento, ma come ambito di realizzazione, personale e professionale, affinché non si concretizzi la deprimente profezia di Paul Valery, e cioè che fra i partigiani e i detrattori di qualsiasi discutibile tesi, il minimo comune denominatore è l’ignoranza della tesi stessa.