«L’angoscia calmata per poco ricompare e lancina il petto con più forza ancora. Gli occhi di Jona inquieti e dolorosi inseguono la gente che corre ai due lati della via: non ci sarà fra quelle migliaia di persone neanche una che voglia ascoltarlo? Ma la folla corre e non si accorge né di lui né della sua angoscia […]». Questo estratto del racconto «Angoscia» (1886) di Cechov, libro che sta leggendo uno dei protagonisti de «Il Punto di rugiada» di Marco Risi, descrive lo strazio di un umile vetturino che durante la giornata lavorativa non riesce a trovare una sola persona interessata ad ascoltare il suo lutto (ha perso un figlio da una settimana), nonostante lui abbia un bisogno impellente di parlarne, di tratteggiare i singoli dettagli di quella perdita che ne ulcera l’animo.
Prodotto dalla Fandango di Procacci, uscito il 18 gennaio scorso e applaudito al Torino Film Festival, Il Punto di Rugiada è diretto dal figlio di Dino Risi, sceneggiato da Riccardo De Torrebruna e Francesco Frangipane, e fa ruotare attorno ai giovani Alessandro Fella e Roberto Gudese un senile cast che sembra un omaggio al cinema e al teatro italiani degli ultimi cinquant’anni: un Maurizio Micheli nella versione invecchiata, ed etilica, di sé stesso in «Rimini, Rimini», quando corteggiava Laura Antonelli, Eros Pagni, colonnello a riposo in rotta con la famiglia che riecheggia il D’Apporto di un’altra pellicola Risiana, «Soldati, 365 all’alba», una bravissima Lucia Rossi nei panni della silenziosa ma empatica infermiera e, infine, i due veri protagonisti e cioè Massimo de Francovic e Luigi Di Berti, il fotografo cinico e blaisé e il poeta che non ricorda più i propri versi.
Girato a Roma, il film è quasi tutto ambientato negli interni di Villa Bianca per i quali la produzione ha scelto la splendida Villa Grazioli a Grottaferrata (la stessa di alcuni frammenti de «Il Marchese del Grillo») e il «Villa Tuscolana Park Hotel» di Frascati; l’idea di fondo, in gestazione da 13 anni, proviene dallo scrittore Enrico Galiano che raccontò proprio al regista della sua giovanile esperienza di servizio civile in una casa di riposo di lusso, in alternativa alla leva militare.
TRAMA
Manuel è uno spacciatore e Carlo un ragazzo annoiato che in stato di ebrezza ha provocato un incidente sfigurando la propria fidanzata: rispettivamente condannati a 18 e 12 mesi di reclusione, vedono la propria pena commutata in servizio civile presso «Villa Bianca», una clinica per «ospiti» (non vecchi), dove dovranno espiare le proprie colpe vigilati da un severo direttore e da una misteriosa ma attenta infermiera, Luisa, la cui vita privata sembra impenetrabile.
L’esperienza, che i due vivono inizialmente con indolente condiscendenza, si rivelerà preziosa quando Manuel stringerà i rapporti con Federico, poeta affetto da gravi amnesie, e Carlo suo malgrado con Dino, fotografo colto e cinico che, nella primissima parte della pellicola, vediamo tentare (e fallire) il suicidio impiccandosi alla maniglia della porta.
Fra reminiscenze della più spensierata stagione della musica leggera italiana («Riderà»; «Un bacio a mezzanotte»), documentari sui leoni che sembrano intrigare particolarmente proprio Dino, e le storie dei singoli pensionati che affiorano con tutto il loro carico di irrisolto dolore, il film raggiunge prima il suo punto di rugiada in una bellissima scena di neve improvvisa, per poi chiudersi tragicamente in un epilogo tanto inevitabile quanto commovente.
Due lutti, uno dei quali eccellente, un probabile amore e un viaggio progettato e mi realizzato cristallizzeranno il conflitto intergenerazionale in un confronto necessario e maturo, drammaticamente interrotto dal lockdown del 2020; restano le poesie inedite di Federico, che Manuel legge rapito agli astanti invece del solito brivido splatter fornito dalla cronaca nera, e i collage fotografici di Dino (come Dino Risi, e qui la citazione è icastica), fra immagini di Buster Keaton («l’unico comico che non rideva mai») e quadri di Van Gogh con stanze da letto provviste di due porte, una delle quali forse porta alla stanza di Gauguin, o forse no.
I VECCHI E I GIOVANI
Il punto di rugiada è l’equilibrio fra caldo e freddo che produce la sublimazione e la condensa, ma per Marco Risi rappresenta lo scontro/confronto fra gli ospiti e i due scapestrati ragazzi, a loro volta provenienti da mondi diversissimi: Manuel, di origini sottoproletarie, incline al buonumore e tutto sommato semplice, e Carlo, con una famiglia molto ricca ma distante e totalmente anaffettiva. È proprio il rapporto fra Carlo e Dino il fulcro del film perché, dopo essersi inizialmente scontrati, i due si riconosceranno molto simili, soprattutto nella lucida e spietata analisi di ciò che li circonda, e mentre il primo troverà nel fotografo una sorta di paternità supplente, il secondo vedrà nel ragazzo un alter ego in grado di capirlo e (forse) aiutarlo in un progetto che gli formicola dentro da un po’.
Mentre il pantheon di attori agé è ben descritto e mai ridotto a stereotipo (struggente il rapporto fra Eros Pagni e il figlio, e magnifico il cameo metacinematografico di Erica Blank), le vite dei due ragazzi non vengono sufficientemente approfondite e se questo da un lato potrebbe essere una scelta per consentire al maggior numero possibile di esponenti della Gen Z di «entrare» nella pellicola, dall’altro crea un vuoto narrativo non indifferente.
«Il Punto di rugiada» prende le distanze dal cinema più impegnato di Risi (Fortapasc, Il Muro di Gomma, Meri per sempre) e dai suoi vertici grotteschi (L’ultimo Capodanno), concentrandosi in modo onesto sulle relazioni umane ed anche se il Nostro non tratta la vicenda da un punto di vista sociale, o intellettualmente impegnato, il finto tono brillante scatena una malinconia degna del miglior Fitzgerald, poiché dietro i lustrini e le bollicine, s’annida il luttuoso velo della fine, quella che Dino corteggia quotidianamente e pretende di scegliere piuttosto che subire, scelta che un altro «vecchio» gigante del cinema italiano, Monicelli, ha compiuto in modo netto e consapevole, con quella ironica cattiveria tipica di un orizzonte culturale (tra)passato che oggi verrebbe stigmatizzato dal politicamente corretto.
Jona, il vetturino del racconto di Cechov, dopo una giornata trascorsa nell’indifferenza generale, canterà la tristezza del figlio prematuramente scomparso proprio alla sua cavallina bianca che, soffiandogli su una mano, pazientemente lo ascolterà.