Il 19 giugno scorso, la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge sull’autonomia differenziata, promessa-cardine del programma elettorale del centrodestra per le politiche 2022, presentato dal Governo nel marzo 2023 e obliterato dal Senato lo scorso gennaio: in estrema sintesi si tratta del riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa su materia di competenza concorrente e in tre casi di materia di competenza esclusiva dello Stato; inoltre le regioni possono anche trattenere il gettito fiscale che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.
La proposta, avanzata da Calderoli e fortemente caldeggiata dal presidente leghista del Veneto Luca Zaia, ha provocato dei dubbi all’interno della stessa maggioranza, vista la forte vocazione nazionalista di Fratelli d’Italia e, oltre ad essere stata criticata da economisti e sociologi, sia per gli aspetti tecnici che per le conseguenze sociali potenzialmente divisive, è stata definita dal Fatto Quotidiano «la secessione dei ricchi».
Al centro delle contestazioni sono i Lep (livelli essenziali di prestazione) che, secondo Costituzione, tutelano «i diritti civili e sociali» di cittadine e cittadini e che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, e la cui entità andrebbe stabilita prima delle singole richieste di autonomia. Ma come si determinano i Lep?
Entro due anni dall’entrata in vigore della nuova legge, con delega parlamentare e quindi attraverso dei decreti legislativi, il Governo dovrà stabilire i Lep secondo i principi e i criteri della Legge di Bilancio Meloni 2023, che ha istituito un’apposita «Cabina di regia per la determinazione dei Lep» (presieduta proprio dal Capo del Governo e composta da alcuni ministri), affiancata da un CLEP («Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernente i diritti civili e sociali) con 61 esperti, vigilato dall’ex giudice della Corte Costituzionale Sabino Cassese; le difficoltà incontrate da entrambi questi organi, mirabilmente riassunte da Cassese come «un’esplorazione in terre incognite» hanno riguardato soprattutto la distinzione tra le materie per cui è necessario determinare i Lep e quelle per cui tale necessità non sussiste (9 su 23), ma anche la loro finanziabilità, concedibile solo se non ci siano maggiori costi a carico dello Stato.
Le regioni a statuto ordinario che vogliono più autonomia (articolo 2 della Legge Calderoli) devono deliberare la richiesta da presentare al Governo Centrale, alla Presidente del Consiglio e al Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie; dopo due mesi (quando i ministeri competenti avranno espresso le proprie valutazioni sulle materie su cui si è richiesta maggiore autonomia), inizia il negoziato che culmina nello schema di intesa preliminare fra lo Stato e ogni singola Regione, che deve essere approvato e trasmesso alla Conferenza Unificata del Consiglio dei Ministri.
Successivamente, tale schema approda in Parlamento che entro novanta giorni dovrà esprimersi, quindi torna al Governo e, dopo il nullaosta del Presidente del Consiglio e l’approvazione della Regione, il Consiglio dei Ministri oblitera l’intesa finale: il già alto tasso di laboriosità si complica ulteriormente perché da una parte l’intesa finale fra Stato e Regione dev’essere siglata da un apposito disegno di legge approvato a maggioranza assoluta dal Parlamento, e dall’altra si dovrà stabilire la durata che comunque non potrà essere superiore a dieci anni, potrà essere modificata nel mentre, e se vorrà essere rinnovata se ne dovrà fare richiesta l’anno antecedente la scadenza.
A monitorare i lavori saranno la Corte dei Conti e un’apposita «Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie Locali», ma il principale terreno di lotta per questa legge sembra essere proprio la scuola: Giuseppe D’Aprile, il segretario Uil Scuola Rua, ha parlato a caldo di «un venir meno dell’unitarietà dell’istruzione» mentre la leader del sindacato dei lavoratori della Conoscenza ha dichiarato: «[…]il nostro diventerà un paese a venti velocità sull’istruzione, con l’aumento delle diseguaglianze territoriali anche all’interno della stessa regione».
Gianna Fracassi, segreteria generale della FLC CGIL, ha gridato a un’ «inaccettabile balcanizzazione dei diritti», lamentando anche l’incostituzionalità della legge in termini di universalità dei diritti e del rispetto delle libertà (inclusa quella d’insegnamento), visto che molte regioni potrebbero tornare alle gabbie salariali congelando i diritti dei lavoratori e inaugurando quella privatizzazione del pubblico già in atto a livello sanitario, e che potrebbe diffondersi anche a università e ricerca, mentre la CISL ha espresso il suo parere fortemente critico anche in sede di audizioni parlamentari antecedenti l’approvazione della legge: «serve una scuola che unisca e promuova ovunque una cittadinanza responsabile, con particolare attenzione alle aree di più acuto disagio. Va evitato il rischio di andare nella direzione esattamente opposta.»
L’unica soluzione possibile, ad appena un mese dall’approvazione in via definitiva della legge Calderoli, è sembrata la raccolta firme per un referendum, iniziativa che ha animato tutti i leader dell’opposizione, pronti a presidiare con banchetti le maggiori piazze d’Italia: dalla Schlein che ha definito l’autonomia differenziata «un cinico baratto in cambio di una pericolosa riforma costituzionale come il premierato», condannandola non solo per il Sud e per le aree interne ma anche per il Nord, perché rischia di frammentare venti politiche energetiche diverse, passando attraverso Antonio Conte, secondo cui questa riforma va bocciata perché spacca l’Italia operando una vera e propria secessione, e i lapidari Bonelli e Fratoianni (Avs) che l’hanno definita «una controriforma che frantumerà l’Italia in venti piccoli staterelli del tutto incapaci a rispondere alle sfide di questo tempo».
Se il quesito referendario sarà accolto (si viaggia spediti già ben oltre le 500 000 firme) potrebbe affiancarsi per importanza a quello del 1974 sul divorzio e a quello del 1981 sull’aborto, poiché mentre questi ultimi sancivano la laicità dello Stato italiano, il primo potrebbe divenire una sorta di plebiscito sull’unità nazionale, per una volta tanto non invocata solo in senso bellico o calcistico.
La sensazione del divaricarsi della frattura fra Nord e Sud, già dilatata a dismisura soprattutto a livello scolastico e sanitario, si salda a una crescente sfiducia nel primato delle Regioni, cui non è conseguito alcun miglioramento in termini di servizi, per una legge che sembra flettere i bicipiti di Lombardia e Veneto a danno di un Meridione per niente disposto a farsi raggirare da presunti miraggi di indipendenza: in questo scenario si osserva anche l’imbarazzo di Fratelli d’Italia, partito simbolo del nazionalismo che, pur di ottenere l’appoggio della Lega alla legge sul premierato, ora sembra divenuto l’interprete di un patriottismo «a contrario», capace di manifestarsi solo contro l’Europa o gli stranieri.
Che l’Italia, democrazia relativamente giovane, viva dei suoi accentuati particolarismi, che vanno protetti e valorizzati da un punto di vista sia storico che culturale, è un dato di fatto oggettivo, ma che questo non debba tradursi in un secessionismo istituzionale fondato sull’abuso della delega, è una necessità altrettanto fondativa e potente.
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