Sceglie la dimensione corale e metanarrativa per il suo quindicesimo lungometraggio il sessantacinquenne regista turco naturalizzato italiano (anzi, romano) Ferzan Özpetek, e «Diamanti», nelle sale dal 19 dicembre, distribuito da Vision e in collaborazione con Sky, è innanzitutto un tributo alla femminilità, visto che il cast è un gineceo di ben diciotto attrici.
Rossa, satura e quasi da fotoromanzo, la fotografia del sodale di sempre Gian Filippo Corticelli, per una sceneggiatura scritta a sei mani con Carlotta Corradi ed Elisa Casseri (saliamo a venti), con musiche originali di Giuliano Taviani e Carmelo Trania, anche se le vere sorprese sono l’inedito di Giorgia, che torna a collaborare col maestro dopo l’iconica «Gocce di memoria», ma anche «Amore Vero» di Mina, citata negli abiti-scultura confezionati per lei da Pietro Gherardi, il walzer brillante scritto da Nino Rota per «Il Gattopardo» di Visconti, e «La Mattchiche» dal celebre programma televisivo «Milleluci».
Due menzioni particolari al costumista Stefano Ciammiti e allo scenografo Deniz Gokturk Kobanbay, in grado di dare strati e spessori ad una trama che si evolve per spirali e sovrapposizioni e in cui gli uomini, volutamente unidimensionali, rappresentano l’incurabile sordità del potere.
TRAMA
Siamo nella Roma del 1974 e la sartoria delle sorelle Canova è alle prese con un mese infernale visto che, al di là dei soliti progetti teatrali, si è assunta l’impegno di realizzare i vestiti dell’ultimo kolossal settecentesco del premio Oscar Stefano Accorsi, la cui costumista Bianca (Vanessa Scalera), a sua volta Oscar, sembra ricalcata sul personaggio di Milena Canonero (quattro statuette, nove candidature e featuring con personaggi del calibro di Kubrick, Ford Coppola e Wes Anderson).
Alberta Canova, una strepitosa Luisa Ranieri, è la seminale rappresentazione dell’imprenditoria al femminile, ruvida, giusta, determinata e segretamente generosa, mentre sua sorella Gabriella (Jasmine Trinca) ne è il morbido contraltare, ipersensibile, distratta e con una latente vocazione all’alcolismo a causa della prematura perdita della figlia; l’ironia da tombeuse de hommes di Geppi Cucciari si alterna alla materna bonomia di Silvana (Mara Venier), ex soubrette ed ora cuoca della squadra, mentre la giovane Beatrice (Aurora Giovinazzo) sfugge alla lotta di classe sostituendola con orli e pizzi complice un insospettabile talento, e Milena Mancini si ribella alle vessazioni del marito violento, un Vinicio Marchioni stile Valerio Mastandrea in «C’è ancora domani».
Le sottotrame sono infinite, così apprezziamo il cameo della zia Milena Vukotic, il «duello» fra Alide Borghese (Carla Signoris) e Sofia Volpe (Katia Smutniak), corifee rispettivamente di teatro e cinema che sul finale sciolgono l’antagonismo in un calice di reciproco rispetto, il monologo di Bianca che rivela tutta la sua fragilità al cospetto di un regista volubile e autoritario, e l’aplomb di Alberta nello scoprire che l’amore della sua vita l’ha abbandonata a Parigi non per disinteresse, ma per un’inattesa tragedia.
L’epilogo, costruito per stratificazioni e denso di suggestivi primi piani, si concretizza nell’abito della protagonista, cucito in una notte, eccessivo e rosso come lava, secondo gli iniziali bozzetti della costumista, in grado per una volta di emanciparsi dal vigile controllo del maschio-regista-padrone, e coadiuvata dal solerte lavoro di tutti e diciotto i diamanti ozpetekiani.
La chiusura con Elena Sofia Ricci trasfigurata in musa dell’immaginario cinematografico italiano, è in parte autobiografica, visto che il giovane Ferzan è cresciuto artisticamente fra scenografie e sartorie teatrali, e non poteva prescindere dalla dedica a Mariangela melato, Monica Vitti e Virna Lisi, «nella speranza di poter lavorare con loro un giorno».
ROMA VELATA
Dopo aver velato Napoli, Özpetek (dis)vela Roma, e precisamente Testaccio e la storica palazzina in Piazza Cavalieri di Malta 1, senza dimenticare il celebre giardino degli aranci, un omaggio alla città in cui vive e lavora da anni, ma tutto il film è un tributo alla propria idea di settima arte, dagli attori che, tranne qualche pregevole innesto, abbiamo già visto nella sua ormai trentennale carriera all’ennesima tavola imbandita sulla quale si decidono sorti e amori dei protagonisti.
Di sicuro manca la prurigine e la cattiveria dei primi lungometraggi (su tutti «Le Fate Ignoranti») e l’espediente metanarrativo, che funziona sul piano emotivo, depotenzia la trama e la forza dei personaggi che sembrano assecondare educatamente i voleri del puparo ottomano, ma parlare di derive manieristiche è ingeneroso, perché l’ordito tiene e l’affresco funziona, anche in una Roma svuotata dal traffico, sospesa ed autoreferenziale.
In un universo frammentato (frammentario) e sempre più individualista, come quello del cinema italiano, ricordare Pietro Tosi (Oscar onorario nel 2014), o il lavoro di Danilo Donati per Fellini, significa parlare di artigianato e maestranze, eccellenze e vero Made in Italy, senza falsa retorica o ruffiani ammiccamenti al politically correct: le quote rose vengono letteralmente inondate da 160 metri di tessuto rosso, doppiato di crinolina nera, dell’abito finale che fa mostra di sé anche in locandina, strascico nuziale d’un matrimonio collettivo di sole donne, incastonate nella stoffa come un rosario di fatali vertebre, tasti di una sinfonia che funziona solo grazie al silente sacrificio di ogni singola nota.
Giunto a questo trionfo almodovariano, con punte di pathos televisivo alla Twin Peaks prima stagione, Özpetek dovrà ora avere il coraggio di distruggere sé stesso dando fuoco alla sartoria dei ricordi e, come consigliava Henry Miller ad ogni artista, di far abbeverare i propri cavalli all’acquasantiera, perché se è vero che «il buon gusto è la morte dell’arte» (Truman Capote), per frequentare il cattivo gusto non serve una bella voce ma coraggio e ottimi polmoni; nel frattempo, che si torni nelle sale non a riveder le stelle ma i diamanti, visto che quelli cinematografici rovesciano il celebre verso di De André: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».