A poca distanza dal varo ufficiale (11 ottobre 2024) su Sky e Now, vale la pena parlare della vera serie-evento dell’anno, e cioè «Hanno ucciso l’uomo ragno-la leggendaria storia degli 883», ma prima di affondare le fauci nella carne viva della narrazione, è giusto ricordare che l’opera è co-prodotta, insieme a Sky, dalla Groenlandia, la casa fondata proprio da Matteo Rovere e Sydney Sibilia, regista e ideatore di questo piccolo gioiello made in Italy.
Da anni il sodalizio fra Matteo Rovere e Sydney Sibilia ha generato prodotti sicuramente accattivanti che, pur se posizionabili nel recinto dell’intrattenimento, si sono distinti per originalità e un trademark riconoscibilissimo: stiamo parlando della trilogia di «Smetto quando voglio», de «L’incredibile storia dell’isola delle rose» e di «Mixed by Erry», la cronistoria della nascita della pirateria in Italia.
In questo progetto, autorizzato dagli 883 (che però non hanno contribuito in fase di scrittura), e liberamente ispirato all’autobiografia di Max Pezzali, «I cowboy non si arrendono mai», i primi due episodi sono stati girati proprio dal filmaker salernitano, mentre il terzo, il quarto e il sesto da Alice Filippi e il quinto, il settimo e l’ottavo da Francesco Ebbasta, il tutto con un’apprezzabile linea di continuità registica.
La miniserie di otto episodi, oltre alle celebri canzoni del duo pavese, ha visto la collaborazione alle musiche di Santi Pulvirenti e alla fotografia di Davide Manca, ma deve il suo (possiamo dire inatteso) successo anche alle interpretazioni di Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli, forse a tratti un po’ forzate, ma in grado di sprigionare una contagiosa empatia e una nostalgia per niente crepuscolare.
TRAMA
Si comincia con la pessima pagella che Albert Enstein consegnò a suo padre prima di essere costretto ad emigrare a Pavia e, attraverso questa geniale corrispondenza con la bocciatura di Pezzali, che lo porterà prima a lavorare come fioraio col padre, e poi a conoscere Repetto proprio fra i banchi di scuola, inizia la saga provinciale degli 883, sicuramente romanzata ma semplice ed efficace.
L’amore di Max per Silvia (Ludovica Barbarito), che lo sfida a scrivere una canzone per lei, e le ambizioni da dj del suo amico, lasciano il posto ai primi esperimenti di composizione e all’incontro con Claudio Cecchetto (un sempre bravissimo Roberto Zibetti) che ne intuirà le potenzialità, pur nutrendo molti dubbi sull’immagine del gruppo, e sulla loro reale capacità di esprimersi dal vivo.
Fra litigi e incomprensioni, il lavoro alla Croce Rossa di Max e il ridimensionamento famigliare, si arriverà alla genesi del primo disco dal singolo più iconico di sempre, il soggiorno a Milano e la consacrazione a Riccione, il tutto dopo il battesimo del fuoco al desueto Cantagiro, il momento in cui «Mauro iniziò a ballare».
La provincia, in questo caso più sfigata che meccanica, è il teatro di posa di un’amicizia incongrua ma ben assortita, di un amore che sembra impossibile, di sale giochi-arcade che diventano canzoni e trasposizioni di sogni collettivi, e di un linguaggio pronto a clonare e rappresentare un decennio e oltre.
Lo speakeraggio di Max, mai gratuito e sempre organico alla storia, così come la narrazione postmoderna, rendono la trama godibile anche ai non fan della band, in quanto metafora universale di un desiderio d’emancipazione misto a insicurezza post-adolescenziale, tipici dei losers d’ogniddove.
(PA)VIA DA LAS VEGAS
La rettifica di Max sulla vera scuola superiore dove avrebbe studiato, diversa da quella della serie ma meno funzionale ai fini narrativi, così come la velata polemica di Claudio Cecchetto al presunto antiprovincialismo del suo personaggio, lui che sostiene di aver costruito la propria fortuna proprio in e sulla provincia, sono solo spezie aggiunte alla viralità della serie: l’apparizione di Jovanotti che presenta a Live in the music Pezzali-Repetto nel 1988, quando sono ancora gli «I-Pop», e l’incontro con un giovane Fiorello indeciso se fare o meno un nuovo programma che si chiamerà Karaoke e che non sa se avrà o meno successo, sono solo alcune delle trovate di Sibilia che rendono la serie appetibile.
Non si può non empatizzare coi due ragazzi squattrinati che approdano nella Milano delle hit, appassionati di punk e costretti a fare da spalla, almeno inizialmente, a personaggi marginali come il Canino di «Brutta», che sfiorano i Metallica, si ritrovano a brodo piscina con le ragazze di «Non è la Rai» e finiscono primi in classifica senza un vero contratto discografico, una reale gavetta dal vivo, e delle interviste degne di tale nome.
Riccione, come detto, sarà la consacrazione ma, prima di un successo realmente popolare, c’è la «tavernetta» dove scrivere di sogni troppo grandi e della frustrazione che ne consegue, ma anche dell’eredità da raccogliere dei tanti vinti che si sono arresi e non ce l’hanno fatta, e di chi, mosso da logiche commerciali e ambizioni d’alta classifica, ha ucciso e continua a uccidere l’uomo ragno.
Un «Santa Maradona» 2.0. o un «Ovosodo» in salsa meneghina questo «Hanno ucciso l’uomo ragno…» che rievoca con una fotografia satura la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, con la televisione commerciale e tutti i punti di riferimento del periodo, ma che allarga l’obiettivo su una precisa metafora culturale: mangiando pasta al pesto in tarda serata con loro, Sandy Marton conferma di non aver mai visto Ibiza, nonostante l’omonimo tormentone da lui composto, e consiglia di scrivere sempre in modo onesto di ciò che si conosce e si è vissuto, abbandonando l’inglese e coniando un proprio linguaggio.
Ed è questo che hanno fatto gli 883 e che va riconosciuto loro, al di là dei gusti personali dal punto di vista musicale: raccontare con onestà, romanticismo dozzinale e nostalgico rimpianto la fine del Millennio, e la serie di Sibilia and co non fa che rappresentare l’incredibile storia (o leggenda) di chi (non) ha ucciso l’uomo ragno.
Mentre Repetto promuove un tour teatrale, rilanciandosi anche come personaggio televisivo, aspettiamo l’approdo dei Nostri al Festivalbar nel seguito già in lavorazione, rimpiangendo gli anni d’oro del grande Real e dei finali in grado di escludere incontestabilmente una nuova stagione.