Tradizione e traduzione

da | Ago 20, 2024 | IN CATTEDRA

Un vecchio adagio anglofono recita «the translator is a traitor», e cioè che ogni traduttore è anche un po’ un traditore perché nella necessaria e a volte fondamentale operazione di tradurre frasi e concetti da una lingua all’altra qualcosa si perde (ricordiamo il bellissimo film di Sophia Coppola «Lost in translation»): molti, nati come il sottoscritto nel secolo scorso, hanno avuto a che fare con libri di poesia, ma anche prosa o teatro, in cui a fianco alla traduzione c’era la versione in lingua originale e hanno potuto constatare quanto a volte, sia per ragioni di metrica che di significato, l’opera ne uscisse sminuita o in qualche modo privata di una parte intangibile ma essenziale.

Non è un caso se a tradurre classici (e non solo) stranieri non siano sempre stati dei professionisti del settore ma altri scrittori e/o poeti, in grado di riprodurre fedelmente oltre alla grammatica e alla sintassi del testo, anche «l’anima» dell’estratto, se mi si passa il termine pomposo e vagamente didascalico: una giovane Michela Murgia, nel presentare il libro «Accabadora», raccontava di quanto ogni tradizione meritasse di essere trasportata («traditio», in latino, significa consegna, trasmissione) solo in base al suo effettivo radicamento nel presente, come a dire che mettere in scena riti di un folklore senza più carne né viscere sia un’operazione sterile e destinata a perdersi.

Tradurre un testo e perpetrare una tradizione sono quindi entrambi atti simbolici fondati sul rispetto di un originale che viene necessariamente tradito, ma se il tradimento si fonda sull’amore e sul rispetto, la trasmigrazione può generare qualcosa di sublime nella (per la) sua modernità.

Uno spettro si aggira per l’Europa ultimamente e porta il nome di traduttore universale.

Già da un po’ un software della HeyGen, una startup californiana, consente di creare dei video deepfake, e cioè estratti in cui persone reali, tramite l’intelligenza artificiale e caricando una foto del proprio volto con un testo, possono dire qualcosa con una voce sintetica in ben quaranta differenti lingue: il risultato finale è un avatar che muove le labbra perfettamente a tempo con sillabe pronunciate in un idioma sconosciuto anche se, contenutisticamente, nella maggior parte dei casi, non si è distanti da un balletto su Tik Tok.

Google Translate, la app più utilizzata al mondo in termini di traduzioni, vanta un miliardo di scaricamenti e, rispetto alla sua genesi nel lontano 2006, ha fatto passi da gigante: la grande svolta è avvenuta nel 2015, quando il motore di ricerca cinese Baiudu ha reso operativo il proprio servizio di traduzione automatica basato sulle reti neurali.

Attualmente il traduttore automatico preferito dai traduttori umani è invece DeepL (acronimo di Deep Learning Language), azienda fondata dal quarantaduenne polacco Jarek Kutylowsky che fattura più di un miliardo di euro l’anno e che dal 2017 ad oggi ha assunto più di 200 persone per 20 mila clienti, fra cui dei colossi come Mercedes Benz, anche se i suoi 25 milioni di scaricamenti sono ben lontani dai vertiginosi numeri di Google Translate.

Il valore aggiunto di DeepL sembrerebbe essere proprio la specializzazione, visto che a differenza dei propri macro-competitor, si occupa solo di traduzioni ma anche l’utilizzare 20 editor e migliaia di free lance sparsi per il mondo per il labor limae finale: il principio ispiratore della filosofia di quello che è a tutti gli effetti uno dei cinque unicorni, e cioè le aziende del Vecchio Continente valutate annualmente oltre il miliardo di euro, è che ci sia sempre un umano che si assume la responsabilità della traduzione in un qualche punto della catena, anche se lo scenario distopico di un unico uomo alle prese con centinaia (se non migliaia di traduzioni) effettuate dalle macchine diventa sempre più tangibile.

Come già detto, la vera svolta è avvenuta nel 2015 quando Google Translate utilizzò come modelli per la macchina migliaia di impeccabili traduzioni Ue e, ponendo le basi per l’IA e per CahtGPT, cominciò a considerare il contesto della frase attraverso reti neurali invece di tradurre parola per parola ma, nonostante l’entusiasmo intorno alla possibilità di certo elettrizzante di poter soppesare migliaia di idiomi sull’ideale bilancia del proprio smartphone (il picco di Google Translate è stato durante i mondiali di calcio in Russia, con milioni di visitatori che cercavano di farsi capire per strada o negli hotel) resta che il livello delle attuali app senza revisione umana è piuttosto  basso.

In indagini a campione, fra traduzioni automatiche, con revisione umana, o tutte umane, le ultime sono state quelle più apprezzate e in un recente articolo su «The Atlantic» si è ribadito come la traduzione automatica possa rendere in qualità accettabile solo il 30% dei romanzi e solamente nei passaggi più semplici, anche se sono già molte le case editrici (anche in Italia) che affidano la prima bozza dei libri opzionati a ChatGPT o a DeepL.

Ma quali sono i rischi/limiti che si annidano dietro l’antibabelico mito del traduttore universale?

Innanzitutto c’è un fattore di praticità, perché non è accettabile immaginare un futuro in cui per rapportarsi a un altro essere umano che parla una lingua diversa dalla nostra bisogna prima aprire una app, sperare in una buona connessione e poi subire, e far subire, l’inevitabile attesa per i tempi di risposta (trattandosi di tecnologia è ovvio che ci siano ampi margini di miglioramento, ma lo scenario attuale è ancora questo); in secondo luogo va considerato che i traduttori automatici potrebbero essere impostati con dei limiti etici che proibiscano di dire certe cose, aprendo a un subdolo meccanismo di censura; sul piano letterario l’impoverimento lessicale e la riduzione di complessità sono dietro l’angolo, non solo perché tradurre significa anche interagire con un altro popolo e un’altra cultura, ma anche perché esiste una dimensione dialettale o slang mai del tutto codificata che verrebbe sacrificata sull’altare della semplificazione più che della semplicità (basta pensare all’immenso lavoro che si è svolto per rendere l’argot parigino di un Céline).

Più del 40% delle lingue mondiali sono solo parlate, e quindi non digeribili dall’algoritmo, ed anche se Meta un paio d’anni fa aveva lanciato il progetto UST (Universal Speech Translator), in grado di tradurre, tramite AI e lingue-ponte, idiomi solo verbali, lo scoglio di un’oralità irriducibile alla panacea della traduzione universale resta, così come è un fatto il drastico calo delle iscrizioni alle facoltà di lingue straniere in molti paesi (Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Usa) fino all’estremo della West Virginia University che nel settembre 2023 ha deciso di rimpiazzare il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere con una app on line.

«Il giovane Holden», pietra miliare della letteratura statunitense, in lingua originale è «The Catcher in the Rye» (letteralmente «cacciatore» o «terzino» nella segale), perché Salinger, lo scrittore, ispirandosi a un verso di una poesia di Robert Burns, voleva «acchiappare» (il catcher nel baseball è colui che agguanta) i bambini, o per estensione di metafora gli innocenti, prima che cadessero nel burrone dopo avare attraversato un campo di segale: inutile dire che nessun traduttore universale potrebbe mai rendere la ricchezza e la complessità di una simile visione.

Articoli Recenti

Nomofobia: la generazione ansiosa

Nomofobia: la generazione ansiosa

Qualche anno fa ci siamo già occupati, durante lo scenario post-pandemico, della F.O.M.O. («fear of missing out»), letteralmente la paura di essere tagliati fuori, espressione riferita a un contesto prettamente digitale e cioè quando non si può più fare a mano di...

Dai diamanti nascono i fior

Dai diamanti nascono i fior

Sceglie la dimensione corale e metanarrativa per il suo quindicesimo lungometraggio il sessantacinquenne regista turco naturalizzato italiano (anzi, romano) Ferzan Özpetek, e «Diamanti», nelle sale dal 19 dicembre, distribuito da Vision e in collaborazione con Sky, è...