Presentato al Taormina Film Festival e candidato ai David di Donatello 2022 nella categoria «migliori effetti speciali», «A Classic Horror Story» è il secondo lungometraggio di Roberto De Feo, scritto a quattro mani con Paolo Strippoli, dopo il promettente esordio di «The Nest»: nel cast la bravissima Matilda Lutz (Revenge), Yuliia Sobal e Will Merrick nella parte della coppia straniera, Francesco Russo in quella del protagonista autoctono, Peppino Mazzotta e Cristina Donadio (la Scianel di Gomorra).
TRAMA
L’inizio del film è uno storico (anzi classico) topos horror: cinque personaggi in carpooling decidono di raggiungere con motivazioni diverse la Calabria mentre il proprietario dell’antiquato furgone li filma per arricchire i contenuti della sua pagina Instagram «Gli amici di Fabrizio»; ci sono Elisa, che sta scappando da un aborto e dalle pressioni famigliari inerenti al lavoro, Riccardo, medico reduce da un fatale errore professionale e in crisi coniugale, Fabrizio che guida e documenta le loro impressioni facendo salaci battute sulla mafia e infine la coppia di stranieri con Mark (americano) che malcela la propria fragilità dietro un machismo posticcio o la voglia di bere.
Un cervo morto sul ciglio della strada (MacGuffin o sacrificio rituale?) li porterà a sbandare ma quando si risveglieranno, con Mark gravemente ferito ad una gamba, realizzeranno che il camper si trova su una radura di fronte a una strana casa apparentemente disabitata.
Ovviamente i cellulari non prendono e tutti i tentativi di ricerca di aiuto falliscono perché due dei protagonisti, dopo aver girato in cerchio ed essere tornati alla casa pur avendo mantenuto la stessa direzione in senso inverso, si imbattono in tre fantocci mascherati e cinque teste di maiale mozzate, feticci che si trovano dipinti anche all’interno della baita, in macabre raffigurazioni con copricapi lignei fra foto seppiate della Calabria rurale che fanno molto «Un Tranquillo Week End di paura».
L’agnizione di una bambina dalla lingua tagliata deposta in una nicchia di fieno ricorda a Fabrizio la leggenda raccontatagli da sua nonna quand’era bambino, e cioè la storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, le entità prive di lingua, occhi e orecchie (e delle relative funzioni ad esse collegate) che, per salvare il villaggio da una terribile carestia, promettevano loro cibo in cambio di tre sacrifici rituali, alle cui vittime, prima della morte, venivano strappate proprio lingua, occhi e orecchie.
A questo punto la spirale d’orrore può avere inizio: con stridere d’archi e sirene rosse viene prima sacrificato Mark (rimasto nel furgone per la gamba offesa), quindi Riccardo e Sofia, mentre Elisa e Fabrizio assistono alla scena dietro le finestre della casa, e un’insana folla di contadini a loro volta mascherati officia silenziosamente al rituale.
Alcuni indizi, in realtà piuttosto chiari se non palesemente sbandierati, fanno capire ad Elisa che forse Fabrizio è coinvolto e qui la pellicola diviene sempre più meta-cinematografica, virando cinicamente sull’abusato tema degli snuff movie, ma mantenendo un alone fieramente italiano, senza mai scadere nel provincialismo.
L’omertà e l’autosegregazione in rituali sanguinari ma protettivi, il senso della famiglia e dell’onore divengono i segni distintivi di una mafia che muta forma per sopravvivere e si serve delle tradizioni rurali per speculare sui turisti e guadagnare tramite il deep web grazie alle loro morti.
Elisa (forse) riuscirà a fuggire in un finale che rappresenta una critica forse un po’ troppo didascalica, ma comunque efficace, alla nuova società dei consumi e dello spettacolo.
COSA (CASA) NOSTRA
Nel XV secolo, a Toledo, in Spagna, i tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso facevano parte dell’associazione Guarduña (fondata nel 1412), caratterizzata da uno spiccato senso dell’onore e dal connubio fra etica cavalleresca e religiosità: quando l’onorabilità della loro sorella fu messa in discussione da un protetto del re di Spagna, i tre assassinarono immediatamente l’uomo finendo per scontare trent’anni nella fortezza di Santa Caterina, sull’isola della Favignana.
Invece di soccombere a un ambiente duro e ostile i tre si legarono rispettivamente a Gesù Cristo, a San Michele Arcangelo e a San Pietro, quindi si impegnarono a stilare codici, regole e rituali più o meno esoterici di affiliazione, per la creazione di una nuova società in modo che la loro nemesi alla Montecristo portasse Osso a fondare Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la ‘Ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la camorra in Campania.
È questo forse l’elemento più interessante di «A Classic Horror Story», che trasforma un intelligente citazionismo in una sorta di etno-horror che pesca a piene mani nel folk tricolore rivivificando una leggenda affatto nota ai più («ho trasformato Osso, Mastrosso e Carcagnosso in Jason, Freddy e Leatherface!!!», grida Fabrizio rivendicando la propria spinta creatrice di fronte alle perplessità di Elisa).
Omaggio al genere sulla scia craveniana di Scream («perché nessuno lo dice che sembra di stare in un cazzo di film horror?»), omicidi dentro mannelli di fieno come in «The Wicker Man», endogamia e recinti sacri da non divellere come in «The Village» o «Le Colline Hanno gli Occhi», girovagare in tondo mentre il tempo si dilata come in «The Blair Witch Project», ritrovarsi spostati dal luogo dell’incidente come in «Lost», fino ai calchi più evidenti come «La Casa» di Raimi o «Non Aprite Quella Porta»; per ciò che concerne proprio il capolavoro deviato di Tobe Hooper siamo ai limiti del plagio, dal furgoncino col locale infiltrato alla casa che nasconde abominevoli segreti fino al risveglio dell’eroina, inchiodata a una sedia e costretta a «cenare», mentre la famiglia ne sfotte i mugugni di terrore (scena vista anche in «Midsommar»).
Il film di De Feo funziona per ritmo e montaggio, credibilità e rispetto delle sacre regole dell’horror, si infila nel gotico di Pupi Avati ma trascinandolo in Calabria e ammicca al ritualismo pagano di «True Detective», ma soprattutto non fa il verso agli Stati Uniti evitando di scadere, come il pur suggestivo western nostrano del secolo scorso, in un Texas padano o in una Frontiera del Po’.
Ma non abdichiamo alla funzione critica e veniamo ai limiti: gli effetti speciali sono molto curati, troppo curati, al punto che manca lo squallore e la sporcizia, quel senso di degrado (anche morale) così tangibile in «The Texas Chainsaw Massacre», e questo dà l’impressione che De Feo and Co non abbiano avuto il coraggio di andare fino in fondo, eppure il limite più grande di «A Classic Horror Story» risiede proprio nella sua chiave di volta interpretativa.
Ipotizzare che le nostre mafie si pieghino alla produzione di snuff movie per spettatori particolarmente esigenti in circuiti clandestini che ricalcano in chiave digitale il pollice verso circense piò essere interessante ma, eccezion fatta per la già raccontata dimensione etnografica, la povertà di contenuti non può sempre essere riscattata dal citazionismo e quando la sorellina di Fabrizio lo schiaffeggia rimproverandone la mancata fantasia, il manrovescio raggiunge le gote del regista.
In un cinema come quello horror, sempre più autoreferenziale e in grado di autocannibalizzarsi in un’orgia di prequel, sequel e spin off, si avverte il bisogno di nuove piste narrative che non si limitino all’immagine, al sound design e ai jump scare da luna Park.