I Saw the TV Glow: siamo ciò che guardiamo e da cui siamo guardati

da | Set 24, 2025 | MONDOVISIONE

Prodotto dalla A24 e dalla Fruit Tree di Emma Stone, «I Saw the TV Glow», gioiello statunitense del 2024 presentato al Sundance Film Festival e nella sezione Panorama della Berlinale, è il secondo lungometraggio della regista e documentarista Jane Schoenbrun.

Nel cast, insieme al cameo virilmente tossico di Fred Durst (voce storica dei Limp Bizkit), nel ruolo del padre del protagonista, spiccano Bridgette Lundy Paine (Maddy) e Justice Smith (Owen), mentre la fotografia, granulosa e allucinatoria, è stata affidata a Eric K. Yue; il soggetto e la sceneggiatura sono sempre della Schoenbrun, che sembra stia anche ultimando per l’editore Penguin una trilogia di romanzi horror/fantascientifici/fantasy che chiudono il progetto «I Saw the TV Glow», iniziato nel 2021 con «We’re all going to the world’s fair».

Incensata dalla critica, distribuita poco e male nelle sale e rintracciabile ora in streaming, l’opera è stata definita da Martin Scorsese «uno dei migliori film dell’anno, emozionante e psicologicamente potente».

TRAMA

Owen è un adolescente di seconda media nel 1996, mentre l’enigmatica Maddy (che somiglia moltissimo a Winona Rider) è già in prima liceo; il primo vive con un padre maschilista e retrogrado ed una madre iperprotettiva ma incapace di imporsi, mentre la seconda ha una madre di cui non parla mai e un padre violento.

I due scoprono causalmente di adorare la stessa serie Tv young/adult «Pink Opaque», ma siccome i nuovi episodi vanno in onda in seconda serata e Owen deve andare a letto prima per obbedire alle dittatoriali regole paterne, Maddy si offre di ospitarlo di nascosto a casa sua per la visione, o si premura di registrargli in VHS le puntate che non riescono a guardare insieme.

Nel frattempo, la serie ha quasi raggiunto il finale della quinta stagione e Maddy propone ad Owen di fuggire da quella realtà periferica per mettersi in strada e fermarsi solo quando penseranno che ne valga davvero la pena ma il giovane, timido e tutto sommato ancorato al bene materno, decide di rinunciare all’ultimo istante.

Dieci anni dopo Owen lavora in una multisala e, dai difficili rapporti coi colleghi, si capisce che conduce un’esistenza piatta e con un’identità sessuale non ancora definita quando, in un ipermercato notturno, rincontra in modo apparentemente causale Maddy, ormai considerata da tutti prima dispersa e poi morta.

La donna gli racconterà di aver capito (nei suoi lunghi e tormentati pellegrinaggi) che la loro vera realtà era quella di Pink Opaque e che i ricordi «normali» erano soltanto un’illusione creata dal villain della serie per confonderli o manipolarli, e che avrebbero dovuto morire come le eroine del programma per rinascere in modo autentico.

Choccato da quel discorso, e sicuro ormai che la sua vecchia amica sia affetta da qualche psicosi, Owen si allontanerà di nuovo e deciderà di rivedere Pink Opaque, ormai reperibile su tutte le piattaforme on line, trovandolo dozzinale al punto di metterlo in imbarazzo con sé stesso.

Anni dopo, ormai vecchio e con una famiglia alle spalle, impiegato in un parco giochi («io sono quello che riempie di palline le ceste dei bambini»), sperimenterà in modo insindacabile la propria alienazione e inadeguatezza sociale, capendo quanto fosse viscerale il suo rapporto con la TV, e in particolare quello con l’amata serie poi rinnegata.

SO SOLO CHE MI PIACCIONO LE SERIE TV

Ispirato a «Buffy», a «Twin Peaks» (più in generale al Lynch prima maniera) ma con degli innesti body horror degni di «Videodrome» di Cronenberg, il film della Schoenbrun è un caleidoscopio impreziosito da una notevole colonna sonora pop-sinth elettronica con influenze vaporwave: in particolare va segnalato il featuring fra Sloppy Jane e Phoebe Bridges, ma anche il frammento hard core di Kristina Esfandiari.

Il primo piano di lettura è un tributo agli anni Novanta (quelli di Donnie Darko e Dawson’s Creek) ma «I Saw the TV Glow» è anche un film di denuncia sulla famiglia tradizionalmente intesa, incubatrice di isolamento, disagio scolastico, mortificazione creativa e omologazione sessuale.

La seconda chiave di lettura, postmoderna, è il ritratto di una generazione cresciuta di fronte a uno schermo televisivo, affetta da binge watching e dal difficile contatto con la realtà, i cui contorni sono così labili da diventare minoritari rispetto allo sviluppo narrativo di uno sceneggiato capace di rappresentare in maniera decisamente più realistica tutti i riti di passaggio dell’adolescenza.

La chiave interpretativa più diffusa è quella della fluidità gender, visto che Jane Schoenbrun si definisce transessuale, poliamorosa e non binaria, Justice Smith ha una personalità queer e condivide con la regista l’uso del pronome they per definire sé stesso, mentre Bridgette Lundy Paine, aka Jack Haven, si descrive da sempre «un po’ ragazzo, un po’ ragazza, un po’ nessuno dei due».

Eppure raccontare «I Saw the TV Glow» come un manifesto sulla fluidità di genere sarebbe riduttivo perché l’estetica lynchiana di Pink Opaque, da Mr Malinconia col volto-luna dei fratelli Méliès e del video «Tonight Tonight» degli Smashing Pumpkins, ai suoi aiutanti à la Sam Raimi, Marco e Polo, e il soprannaturale potere telepatico sintetizzato dai tatuaggi fluo sulle nuche delle eroine, tutto sottolinea come la televisione abbia rappresentato gli underdog di dovunque, a volte con dozzinali trame ed effetti speciali discutibili, ma con dei legami identitari supplenti e a volte integralmente sostitutivi di quelli parentali.

I ricordi delle generazioni di fine millennio non sono agiti ma mediati, non c’è stata crescita ma sviluppo di trama e gli anni si sono scanditi come i capitoli di un DvD: dalla pubertà alla pornografia non c’è stata metamorfosi o passaggio che la televisione prima, e i suoi capillari eredi poi, non abbiano descritto, inglobato e infine anticipato, agendo sugli spazi ma soprattutto sul tempo.

Ad alcune battute fulminanti («Ti piacciono i ragazzi o le ragazze?» «Non lo so, mi piacciono solo le serie tv» o «Non ho la patente provvisoria, come potrei avere un destino?») si uniscono scenografie geometricamente stralunate, come l’ingresso della multisala di Owen ingombrato di carrelli per la spesa abbandonati, o il reparto orto-frutta dell’ipermercato notturno senza un solo acquirente; gli adulti non ci sono o si riducono a funzioni come in «It Follows», mentre grande protagonista resta lo schermo televisivo, in fiamme, liquefatto, sfondato o organico al corpo del protagonista.

Alla rotazione delle stagioni si è sostituita quella delle serie, i cui frutti sono prequel, sequel o spin off, ed ora non solo il nostro passato è ostaggio di uno schermo (granuloso o ultradefinito) ma anche il futuro che aspettiamo, terrorizzati dal possibile spoiler di chi ci ha preceduto.

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