Si chiama «Affettività e stereotipi di genere. Come gli adolescenti vivono relazioni, genere e identità», l’indagine da «Webboh Lab» per ActionAid che ha indagato desideri e difficoltà di 14700 ragazzi italiani fra i 14 e i 19 anni, «tutti uniti da una forte domanda di ascolto da parte degli adulti»: in una conferenza di qualche anno fa Umberto Galimberti sanzionava questa mancanza d’interesse dei genitori nei confronti dei propri figli riportando la risposta più frequente ricevuta chiedendo loro perché determinate domande non le ponessero a padri e madri: «tanto conosciamo già a memoria le risposte».
L’indagine evidenzia come otto adolescenti sui dieci intervistati provino rabbia contro l’immagine che vedono riflessa nello specchio, mentre sette su dieci si dichiarano perfettamente consapevoli di quanto la maggioranza dei corpi on line sia photoshoppata o integralmente ricreata tramite l’I.A., e quindi falsa o falsata, ma non nascondono il desiderio profondo di aderire comunque a quegli standard.
Si tratta di un vero e proprio «bullismo estetico» ed ha delle precise connotazioni: 1) il suo cardine non è la volontà di diventare belli, o comunque di migliorare il proprio aspetto estetico (a prescindere dai discutibili canoni di riferimento), ma la vergogna del sentirsi brutti; 2) come già rilevato da uno studio sulla chirurgia plastica per i più giovani, non si avverte tanto la volontà di somigliare alla soubrette o influencer di turno, quanto quella di diventare la copia della propria copia photoshoppata, una sorta di narcisismo virtuale confinante con l’onanismo estetico;
3) a differenza dei luoghi comuni in materia, sia per i teenagers che per gli adulti, lo scopo di questo «automiglioramento», spesso fallimentare o con risultati denigratori sulla Rete, non è di natura erotico-sessuale ma di semplice esposizione vir(tu)ale tesa a incrementare la propria tribù di followers: è la fusione della cultura no global, che denunciava il trionfo del brand sull’oggetto di consumo con la società dello spettacolo di Debord, in cui l’immagine sostituiva la merce nel suo più alto grado di spettacolarizzazione; 4) l’adolescenza è da sempre un complesso rito di passaggio in cui ci si confronta con gli altri ma anche coi valori assoluti della vita, scegliendo spesso un approccio ideale se non ideologico, ma nell’era dei social in cui, dall’ecografia al torneo di calcetto passando attraverso le vacanze o i piatti fotografati al ristorante, si esiste solo se inquadrati (e condivisi) da uno smartphone, il bullismo estetico può divenire fonte di frustrazione, autolesionismo o isolamento.
Una corretta educazione affettiva che introduca un’identità non per forza certificata dai social, ma protetta dai tribunali popolari di TikTok e Instagram, potrebbe essere un primo passo per smarcarsi da questa sovraesposizione che, da qualsiasi lato la si analizzi, oblitera il monopolio dell’immagine.
Persino le lodevoli iniziative che affollano il web, con donne sovrappeso che rivendicano il proprio aspetto con coraggio, o mediatori culturali che vantano i chili persi nella retorica fotografica del «prima» e «dopo», col distacco di chi è lontano da determinati parametri di giudizio, finiscono con l’utilizzare lo stesso linguaggio degli odiatori da tastiera e questo perché, che si tratti d’un corpo scolpito o grasso, ferito o debilitato dalla chemio, è sempre il corpo la moneta di interscambio simbolico.
Per non parlare poi del mercato che, amorale e camaleontico, fagocita ogni tipo di minoranza trasformando dei disagi sociali in giacimenti auriferi potenziali: ecco la moda oversize, il veganesimo o il market pubblicitario non più focalizzato sulla famiglia ma sulla fascia (in espansione) del genitore divorziato.
TERRORISMO POLITICO
Il recente omicidio di Charlie Kirk ad opera del ventiduenne Tyler Robinson, al di là delle conseguenti strumentalizzazioni ideologiche, sia in Italia che negli Stati Uniti, ha riacceso l’antico dibattito della violenza in ambito politico, da Martin Luther King alle Brigate Rosse.
Secondo lo studio «Foundation for Individual Rights and Expression», negli ultimi cinque anni post-covid il numero di giovani statunitensi che ritiene «legittimo l’uso della violenza contro gli avversari politici» è cresciuto dell’80%; il sondaggio, condotto su 68510 universitari in 257 atenei, rileva che per il 34% degli intervistati sarebbe accettabile usare la violenza fisica per impedire a qualcuno di parlare nei campus, così come si è passati da uno studente su cinque che nel 2020 riteneva lecito il terrorismo politico contro gli oppositori, all’uno su tre del 2025 (con punte estreme del 42% nell’Università dell’Oklahoma).
Il dato interessante è che l’incremento non si posizione eminentemente nella destra repubblicana, come erroneamente potremmo pensare da osservatori esterni, ma si livella in entrambi gli schieramenti visto che, sempre da altri sondaggi emerge che, un terzo dei democratici riterrebbe i repubblicani capaci di attentati, e un terzo dei repubblicani sembra avere la stessa opinione sui dem.
Nel caso del bullismo estetico la violenza si nasconde dietro la libertà di espressione («sei tu che posti una tua immagine ed io sono libero di commentarla come voglio»), mentre per il terrorismo politico è la mancanza di un reale dialogo o di un opportuno senso critico a diffondere l’idea di dover chiudere la bocca a chi non la pensa come noi, triste trasferimento del mono-pensiero delle echo chambers nelle aule dei college, che dovrebbero essere invece i luoghi deputati per antonomasia al dibattito illuminato e al cambio di prospettiva.
IWANU GA HANA
Il minimo comune denominatore dei fenomeni appena analizzati è il pieno, la saturazione della parola: tutti devono dire quello che pensano su qualsiasi argomento, anche perché tale è il verbo dell’algoritmo.
Ma in questo può venirci in soccorso il pensiero orientale e in particolare quello giapponese. Un antico detto nipponico afferma: «pensare senza dire è meglio del dire» mentre Sei Shonagon scrive, nelle «Note del guanciale» che «la forma migliore per esprimere il proprio pensiero è di non parlare affatto».
L’immaginazione giapponese, a differenza di quella occidentale, che si fonda sulla chiarezza, sulla logica e sulla completezza, è invece imperniata sull’incompletezza, sull’allusione e sull’ambiguità, un «amor vacui» ben rappresentato dagli haiku e dal cerchio incompleto dello zen, ma anche dalla mancanza intesa come risorsa e da una caducità, o impermanenza (mujo), figlia di 72 stagioni, otto milioni di dei, e di un clima pronto a scatenarsi attraverso terremoti, tifoni, eruzioni vulcaniche e tsunami.
L’omissione del soggetto e l’ambiguità, nel numero e nel genere, lasciano dei vuoti che diventano un atto di fiducia nei confronti dell’immaginazione altrui, che deve interpretarli, così come il silenzio (che noi occidentali temiamo come uno stigma) sottende a una vita interiore piena di segreti e parti inaccessibili che vanno rispettate, capite, immaginate.
In Giappone la vera libertà d’espressione risiede nel silenzio, nostro e degli altri.
«IWANU GA HANA» significa «non dire è un fiore».





