Il futuro della memoria: fra arte e oblio

da | Set 10, 2025 | IN PRIMO PIANO

L’estate degli appassionati d’arte si è chiusa con una notizia tutt’altro che rassicurante: il Van Gogh Museum di Amsterdam, una delle più visitate collezioni al mondo, con un milione e 800 mila visitatori l’anno, potrebbe chiudere.

Il comunicato stampa, rilasciato agli inizi di settembre, ventila la possibilità di una chiusura permanente così il celebre museo, aperto nel 1973 a seguito della donazione degli eredi del pittore fiammingo nel 1962 allo Stato olandese di 200 quadri e 500 disegni, rischia di chiudere i battenti per una serie di motivazioni che aprono riflessioni sull’arte in generale.

La direttrice Emilie Gordenker ha parlato di obsolescenza dei sistemi di conservazione e climatizzazione delle sale, ma anche degli ascensori e dei sistemi di sicurezza antincendio, correlata all’overtourism, concedendosi una battuta: «così come tutti noi cambiamo il frigorifero ogni 15 anni, anche un museo ha bisogno di un rinnovamento».

La vicenda è subito diventata politica nel momento in cui la Fondazione Van Gogh, che sostiene il proprio bilancio all’85% con i proventi dei biglietti, della caffetteria e dei negozi, nel caso di chiusura parziale per lavori, avrebbe richiesto allo Stato 2,9 milioni in più che andrebbero ad aggiungersi ai 10 che già riceve annualmente, ottenendo un no dal ministro competente (dimissionario) con la motivazione che il museo già beneficia del contributo più alto proporzionalmente per metro quadro di ogni altro museo olandese.

Ma perché l’eccesso di turismo può danneggiare le opere contenute in un museo?

Anche la presenza più discreta, che rispettivamente non tocca nulla, lascia tracce invisibili perché porta con sé umidità e anidride carbonica che nel lungo periodo incrementano l’ossidazione dei pigmenti di un dipinto, inoltre, gli affollamenti nelle sale possono far oscillare sia la temperatura che l’umidità, contribuendo alla formazione di crepe, per non parlare degli urti accidentali di borse e giacche.

In ogni sala aperta al pubblico c’è un enorme, e invisibile, lavoro teso a regolare il microclima creando percorsi studiati e dosando le luci, i cui raggi UV possono potenzialmente degradare le molecole dei pigmenti.

Le grotte di Lascaux, in Francia, scoperte casualmente nel 1940 da un cane e quattro ragazzi e aperte al pubblico solo dopo il 1945, a causa dell’anidride carbonica prodotta dai 1000 visitatori al giorno, sono state chiuse e ora si possono ammirare la sala dei tori e delle pitture parietali nella replica, accanto all’originale, denominata «Lascaux II», oppure in una mostra virtuale in 3D disponibile a Parigi.

Anche il Vaticano ha annunciato, ad agosto, di voler chiudere la Cappella Sistina per restauro visto che negli ultimi anni (soprattutto ora, col Giubileo) il numero dei visitatori è notevolmente aumentato, mettendo a rischio la conservazione degli affreschi di Michelangelo.

Da un lato c’è il tema della democratizzazione delle immagini e di un’arte che deve essere accessibile a tutti, per evitare che diventi (o torni ad essere) appannaggio di pochi, ma dall’altra non si può metterne a rischio l’incolumità per garantirne la fruizione collettiva; limitare gli accessi, dunque, come sta già accadendo in qualche città d’arte, o creare doppi digitali che andrebbero però a minare la sacralità dell’unico e l’irripetibilità dell’esperienza in quella che Walter Benjamin definiva «l’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte» (?)

Non va tuttavia ignorato il fattore presenzialista della selfie-cultura che trasforma la visita a un museo non in un’esperienza immersiva in cui dimenticarsi di sé ammirando opere di secoli remoti che parlano alla nostra umanità più profonda, ma in una testimonianza da ripostare all’infinito, in cui «I mangiatori di patate» o «La dama con l’ermellino» diventano solo elementi decorativi del nostro ego a caccia di like.

Per estendere il discorso dall’aspetto museale a quello più ampio della memoria collettiva e dell’eredità culturale, com’è possibile nell’era dei supporti digitali (che rischiano di diventare illeggibili nel giro di qualche decennio) preservare la nostra cultura e il nostro canone?

In una recente intervista a Repubblica, Vinton Gray Cerf, l’inventore del protocollo TCP/IP, la lingua che ha consentito ai computer di parlarsi e a Internet di nascere, ha citato il «vellum» medievale, una pergamena in pelle di vitello o pecora con testi e miniature destinati a resistere nei secoli, auspicando la nascita di un «vellum digitale» in grado di fare altrettanto nella postmodernità.

I problemi legati a questa rivoluzione/evoluzione della memoria sono molteplici e stratificati: innanzitutto i dati digitali possono restare intatti ma, mentre i software si aggiornano, diventano incompatibili con le macchine in grado di interpretarli, che nel frattempo spariscono, col risultato di avere a propria disposizione una vera e propria biblioteca ma senza più nessuno in possesso dell’alfabeto in cui è stata scritta.

In secondo luogo, con 463 exabyte di dati prodotti ogni giorno (statistiche aggiornate al 2025) servono metadati per classificare tutte queste informazioni, ma chi decide cosa resta e cosa può essere sacrificato? Le istituzioni culturali? Gli algoritmi? Di certo non l’intelligenza artificiale, che si è dimostrata più volte imperfetta in tal senso.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella che escluda il monopolio di un archivio unico (che fa rima con pensiero unico), al posto del quale potrebbe istituirsi un ecosistema diffuso di memorie ispirate al principio virtuoso di trasferire contenuti preziosi alle future generazioni, e non basato sul semplice profitto.

L’altro aspetto da curare è quello della sostenibilità economica: senza di essa nessun archivio può durare.

Infine, per tornare alla discutibile ma ormai imprescindibile risorsa dell’AI, si potrebbero trattare i suoi agenti come fiduciari che non si limitino a fornire risposte ma anche a registrare il processo tramite il quale le hanno formulate, permettendo agli esseri umani di analizzare il loro lavoro in modo critico, perché la selezione/interpretazione finale deve restare sensibile.

Contingentare le visite ai musei, o le opere d’arte stesse (come suggeriva Philippe Daverio), potrebbe essere una prima idea, affidando ristrutturazioni e finanziamenti a quei magnati del digitale che potrebbero diventare, con un ritorno d’immagine non indifferente, i nuovi mecenati, come ai tempi dell’antica Roma o seguendo la lunga tradizione ecclesiastica.

La memoria è di tutti ma occorre un’educazione per il futuro della memoria.

BONUS 500

DISLESSIA A SCUOLA

NEWS

[wp-rss-aggregator]

Articoli Recenti

Cop 30: di Belém in peggio

Cop 30: di Belém in peggio

A Belém (Brasile), capitale dello stato del Parà, a settentrione della federazione carioca e alle porte della Grande Foresta Amazzonica, dal 10 al 21 novembre, con 162 paesi, 60 Capi di Stato, 40 ministri e una stima approssimativa di circa 50 000 partecipanti, si...

Il corpo e il Novecento: un naufragio digitale

Il corpo e il Novecento: un naufragio digitale

Nella recente indagine condotta dal Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) dal suggestivo titolo «Docenti nella scuola del XXI secolo. Una professionalità da valorizzare», che ha coinvolto più di milleottocento insegnanti di Torino, Napoli e Palermo,...

La vita va così: una questione territoriale

La vita va così: una questione territoriale

Quando qualche anno fa sono andato per la prima volta in vacanza nella Sardegna del Sud, ho ascoltato due autoctoni a cena in un ristorante di Cagliari lamentarsi della triste consuetudine, maturata negli anni, di molti turisti di riportare a casa sacchi e sacchetti...