A lungo il mondo ha pensato di averla fatta finita con la guerra, soprattutto dopo gli orrori dei campi di concentramento e la lezione di Hiroshima e Nagasaki ma, prima la Jugoslavia, poi l’Ucraina e di recente il fronte mediorientale hanno trasformato la pace in un’utopia tardo-novecentesca, ingenua e priva di credibilità.
Con oltre 122 000 civili feriti dall’inizio delle ostilità a Gaza, 53822 vittime, fra cui 15 000 bambini e ben 228 giornalisti, qualsiasi limite etico sembra ormai essere stato abbattuto e non si preannuncia alcun tipo di inversione di tendenza.
Espressioni desuete come «corsa agli armamenti» tornano di drammatica attualità e sono in molti gli stati occidentali a invocare un aumento delle spese militari, dimenticando quanto storicamente l’«averne di più» non sia stato affatto un deterrente ai conflitti, come inizialmente ed erroneamente si pensava, ma un tragico fattore propulsivo.
La grande assente dal dibattito internazionale, per lo meno per lo scarso peso (politico oltre che militare) rivestito nei recenti avvenimenti, sembra proprio l’Europa, incapace di impattare diplomaticamente in modo significativo e tristemente deficitaria da un punto di vista federativo: l’Ucraina prima e il Medioriente poi sono state le cartine a tornasole di un progetto palesemente fallimentare che non è riuscito a costruire un’identità transnazionale unica, anche a causa di conflitti nazionali mai veramente sopiti.
Nel Quattrocento e nel Cinquecento la riflessione sulla pace è stata incessante, anche per la scoperta di nuove armi che trasformavano i modi e le forme della guerra, moltiplicando le vittime e diffondendo nuove malattie date dalle innovative tecniche di artiglieria: basta soffermarsi sulle pagine di «Storia d’Italia» di Francesco Guicciardini per capire quanto i nuovi cannoni, più piccoli e leggeri, avessero radicalmente innovato l’arte della guerra.
Fondamentale è poi la riflessione di Erasmo da Rotterdam che nei suoi «Adagia» recita: «chi ama la guerra non l’ha mai vista in faccia […] non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano […] non ne abbiamo a sazietà di queste guerre interminabili?»
Tommaso Moro, contemporaneo e amico di Erasmo, scrive a sua volta che «nessuna specie di belve pratica [la guerra] con tanta frequenza come l’uomo».
Il venir meno della pace, e il processo tecnico prestato all’arte bellica, erano ai tempi del Rinascimento l’effetto del declino dei valori della religione cristiana ma anche della zona d’ombra in cui era caduta l’Italia (da ex centro del mondo culturale a periferia in mano ai barbari), a causa della debolezza di suoi principi, contro cui si scagliava infatti Niccolò Machiavelli nelle pagine finali della sua «Arte della guerra».
Basta sostituire ai cannoni leggeri i droni guidati dall’intelligenza artificiale, e all’insipienza dei principi lamentata da Machiavelli l’indecisione diplomatica della maggior parte dei Capi di Stato europei, per creare un drammatico ponte fra le vicende rinascimentali e l’attualità.
Lo stesso Giordano Bruno, acerrimo nemico delle guerre di religione che scuotevano l’Europa ai suoi tempi, difendeva una filantropia frutto dell’amore universale di Dio per tutti gli uomini, senza alcuna distinzione di razza, ceto o sesso, una filantropia insegnata nel Vangelo di Matteo e declinata nell’amore inteso come «vincolo dei vincoli»; la nuova religione di cui parlava Giordano Bruno, figlia degli insegnamenti di Machiavelli ed Ermete Trismegisto, non era solo antitetica alle guerre di religione del Vecchio Mondo, ma anche alla religione d’ «esportazione» di spagnoli e portoghesi, intenti a trucidare gli indios nel Nuovo Mondo imbracciando la croce di Cristo come un alibi.
Tommaso Campanella, Bruno, Spinoza, Machiavelli, Guicciardini e molti altri, si sono battuti spesso a rischio della propria vita per difendere i valori della civiltà europea, e cioè la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, principi alla base di una pace laica che oggi più che mai devono essere ripresi, vista anche la natura ideologico-culturale dei conflitti in atto.
Uno dei maggiori esponenti della sociologia della globalizzazione, il pensatore di origini indiane Dipesh Chakrabarty, nel suo libro «Provincializzare l’Europa», si è occupato proprio della perdita di peso (geo)politico del Vecchio Continente, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale e con l’avvento prima della guerra fredda e poi della globalizzazione, senza però sminuirne la centralità culturale.
Per lui, se da un lato non è più possibile pensare alla modernità come al risultato di un processo di universalizzazione della cultura europea, dall’altro nessuna realtà post-coloniale sarebbe mai stata possibile senza le idee e i valori dell’Illuminismo: ne consegue che il pensiero europeo è oggi al tempo stesso indispensabile e inadeguato.
Per Chakrabarty, va criticata la visione della storia come una «sala d’aspetto» fondata su un’idea di tempo lineare, per cui Capitalismo e Modernità sono nati in Europa per poi globalizzarsi nel mondo, dai paesi industrialmente più evoluti a quelli meno sviluppati (Marx docet).
Questo, infatti, non spiegherebbe modelli di crescita postcoloniali contrari al liberalismo europeo settecentesco, come l’apertura politica a membri di clan o caste religiose che, da un atteggiamento «pedagogico» della vita pubblica («i civilizzati educano i meno civilizzati») sono passati a un atteggiamento «performativo» (i contadini indiani promossi a classe dirigente hanno appreso la politica sul campo e non preventivamente).
Cambia quindi il concetto di tempo (dal «non ancora» della Storia centrifuga all’ «adesso» dei nuovi modelli postcoloniali), e della Storia in senso lato, con una sua prima declinazione storicista e lineare, eurocentrica e di esportazione, e una seconda più attenta alle realtà particolari e al loro autonomo sviluppo, non pantografato dalla matrice occidentalista.
La conclusione cui giunge Chakrabarty è il passaggio dalla logica della transizione alla logica della «traduzione», in cui al concetto di storia come sala d’aspetto si intersechi quella delle singole realtà locali, senza rinnegare i valori della tradizione laica europea.
La pace, e il complesso gioco di contrappesi che la sorregge o dovrebbe sorreggerla, è un’eredità del pensiero occidentale (ed europeista) che deve imporsi sulla barbarie delle guerre in atto, rievocando una tradizione secolare preziosa e imprescindibile, di cui la comunità europea deve farsi portavoce senza l’ingenua timidezza talvolta scaturente dalla retorica, ma con la forza di messaggi che si sono affermati nell’arco dei secoli, attraverso il sacrificio di donne e uomini che vi hanno creduto strenuamente.