IA e scuola: una crasi possibile?

da | Giu 11, 2025 | IN PRIMO PIANO

In un sondaggio dello scorso aprile, realizzato da Tgm Research per NoPlagio, una delle piattaforme in grado di riconoscere plagi e brani scritti dall’IA, ma anche in grado di umanizzare i testi, è emerso che il 97% del campione intervistato (1007 adolescenti fra i 16 e i 18 anni) usa l’IA generativa, laddove lo scorso anno in un identico sondaggio la percentuale si fermava a 86%.

Medesimi risultati ha ottenuto un recente sondaggio de «Il Venerdì» de La Repubblica, con 19 studenti su 20 (tra i 15 e i 19 anni), che hanno ammesso di utilizzare i chatbot a scuola, anche per le verifiche, ricordandosi magari di togliere la funzione «leggi ad alta voce» e di recarsi in aula con due smartphone, visto che ormai è prassi comune la requisizione dei cellulari a inizio lezione.

Il luogo comune più diffuso, fondato su un ragionamento logico, è che l’intelligenza artificiale generativa sia più utilizzabile per le materie scientifiche, visto che formule e regole sono oggettive, anche se il problema è dietro l’angolo, visto che spesso «i robot che chattano» arrivano alla soluzione tramite procedimenti universitari in scenari da liceo: ovvio che basta un orale e un professore accorto per testare la reale preparazione dietro uno scritto «sospetto», ma alcuni ragazzi hanno aggirato l’ostacolo aggiungendo al chatbot la locuzione: «rispondi come se fossi uno studente di scuola superiore».

Per la matematica il top sembrerebbe l’app «Photomath» che, anche in base all’etimo, è in grado di fornire sia le soluzioni che i passaggi per arrivarci, partendo da una semplice foto scattata con lo smartphone, mentre i chatbot sembrerebbero funzionare bene sia per le traduzioni in lingue moderne che per quelle in lingue antiche (meglio il latino del greco), laddove per la stesura dei temi basta ricordarsi di personalizzare lo stile e introdurre qua e là qualche errore.

Se, in dosi maggiori o minori, a scuola si è sempre copiato, il vero problema sembrerebbe quello dei compiti a casa perché se è vero che già Wikipedia, i motori di ricerca e le app per studenti, hanno facilitato parecchio le cose, è altrettanto vero che l’IA va ben oltre queste semplificazioni, producendo risposte originali e nuove, anche grazie agli infiniti dati incamerati nella propria memoria.

Esistono piattaforme in grado di individuare se un testo sia umano o meno ma, come gli stessi esperti ammettono, non sono infallibili ed è capitato più di una volta che un professore accusasse di «plagio digitale» uno studente che invece aveva svolto i compiti in maniera assolutamente regolare.

Ma come si ragiona dal lato della cattedra?

A febbraio l’Indire (il cui acronimo, giova ricordarlo, sta per «Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa») insieme alla casa editrice Tecnica della Scuola, ha raccolto 1803 testimonianze di docenti, con più della metà disposti ad ammettere di utilizzare già l’IA generativa, soprattutto per mansioni ripetitive come programmi, verbali e relazioni, e solo un 14% apertamente ostile alla sua introduzione in classe.

Da un punto di vista strettamente cognitivo, l’intelligenza artificiale rischia di minare la creatività, il senso critico e le basi del pensiero divergente, ma anche la sicurezza nei propri mezzi espressivi, visto che la maggior parte degli adolescenti è arrivata al punto di pensare di non riuscire a farne a meno, per non parlare del mantra del tempo risparmiato, che non tiene conto di quanto il percorso intermedio possa essere utile al ragazzo per elaborare una propria coscienza e una personale visione del mondo.

Nodale è poi il rapporto fra studenti e professori, in un periodo storico in cui quest’ultimi si percepiscono economicamente danneggiati, socialmente non valorizzati e poco difesi dall’istituzione che rappresentano, a fronte della rottura dello storico patto insegnanti/famiglie che ha trasformato (nella maggior parte dei casi) i genitori in sindacalisti dei propri figli; adesso che l’IA generativa regala già tutte le risposte, è ovvio che il tradizionale modo di insegnamento (trasferimento frontale del sapere) i compiti a casa e la docimologia, vadano integralmente ripensati, in funzione di un maggiore lavoro collettivo in classe.

Se le nuove frontiere digitali potrebbero essere concepibili sul piano universitario, a livello di scuola primaria e secondaria, il tema è che determinate competenze o ancora non si sono formate o lo sono state in modo lacunoso, e quindi l’IA rischia di diventare non un mezzo non per integrare o organizzare un sapere preesistente a monte, ma una seducente scorciatoia che valorizza la performance a scapito della formazione.

L’IA generativa potrebbe diventare, da un punto di vista metodologico, come l’autotune, nata per migliorare eventuali stonature o difetti di pronuncia e ormai ascesa a imprescindibile strumento di genere anche per chi non ne avrebbe bisogno, e questo perché funziona come paracadute culturale o effetto placebo per individui ansiogeni.

Inoltre, a differenza di professori, genitori e talvolta amici, i chatbot non giudicano, anche se la possibilità di trasferire la stessa assenza di aspettative ed emozioni nei rapporti umani è altissimo, così come va detto che l’errore è sempre pedagogicamente costruttivo e, rinunciarvi ai fini performativi, significa perdere quell’antiretorica della sconfitta che conduce all’accettazione di sé e ai necessari meccanismi di solidarietà sociale.

Conoscere l’intelligenza artificiale, utilizzarla in modo critico ed introdurla nella didattica docente/discente, ma anche nella dialettica creazione/costruzione è un passaggio inevitabile che, se osteggiato, potrebbe dilatare quel divario scuola/società, già quasi incolmabile: creare un codice etico condiviso con le famiglie, ragionare su come vengono utilizzati e conservati i dati, potrebbero essere due passaggi fondamentali, ma resta quintessenziale la metafora sportiva di un gesto perfetto risultato di settimane o mesi di allenamento costante, come trionfo del percorso sul risultato. E per il risultato.

La recente fallibilità di Gemini, in grado di inventare espressioni idiomatiche inesistenti o assecondare domande dalle premesse sbagliate, considerandole acriticamente e implicitamente corrette, si è intrecciata con le poco rassicuranti previsioni sul 18% dei lavori planetari prossimi all’automatizzazione (300 milioni circa di posizioni professionali), disegnando uno scenario anomico quasi ottocentesco.

Il proliferare degli offline club, e la proposta sia di un coprifuoco che di una maggiore età digitale, sembrano configurare più che una resistenza neoluddista, anacronistica oltre che autolesionista, una sorta di rete di resistenze tangenti al potere digitale, come le avrebbe descritte il filosofo Michel Foucault, per far sì che la scuola mantenga il proprio ruolo di stimolo emotivo e formazione umana, al di là dei futuribili, e a tratti angoscianti, nuovi scenari tecnologici.

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