Dopo che l’inviato speciale del presidente Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff ha dichiarato di avere «un’ottima sensazione» per il raggiungimento di una tregua a Gaza, a 600 giorni dall’inizio dell’operazione militare, e mentre la Francia annuncia una possibile conferenza dell’Onu a giugno con l’Arabia Saudita, per promuovere una Palestina e un Israele sovrani e liberi l’uno a fianco all’altro, quest’ultimo attraverso una mappa pubblicata dal Linkud, il partito di destra del Primo Ministro Netanyahu, ha sancito il 29 maggio scorso la creazione di 22 nuovi insediamenti colonici in Cisgiordania.
L’annuncio, reso pubblico dal Ministro delle Finanze israeliano Belazel Smotrich, e poi confermato da quello della difesa Katz, è stato definito una «decisione storica riguardo allo sviluppo degli insediamenti: 22 nuove comunità in Giudea e Samaria [il nome che gli israeliani usano per la Cisgiordania, il territorio palestinese occupato sin dal 1967]».
Smotrich ha anche dichiarato: «Non abbiamo preso terra straniera, ma l’eredità dei nostri antenati».
Fra le 22 nuove colonie, alcune sostituiranno gli «outpost», o avamposti, luoghi già occupati prima del riconoscimento ufficiale di Israele, che comunque li tollera apertamente, mentre due sono delle località da cui il governo israeliano si era ritirato nel 2005 su iniziativa dell’allora Primo Ministro Sharon, e che quindi rappresentano un deciso passo indietro sulla strada di una possibile soluzione pacifica del conflitto.
Per dare qualche numero, dalla fine della guerra dei 6 giorni, combattuta nel 1967 da Israele contro una coalizione di stati filo-palestinesi, sono state edificate ben 150 colonie in Cisgiordania e ci sono fra i 500 000 e i 700 000 coloni a convivere tutt’altro che pacificamente con 2-3 milioni di palestinesi: le motivazioni di questo stanziamento sono primariamente di natura ideologico-religiosa, ma anche legate al basso costo della vita e degli immobili, ma ciò che più conta è che le violenze dei coloni ai danni degli abitanti sono ampiamente tollerate se non spalleggiate dall’esercito e dalla polizia israeliana, nonostante più di vent’anni fa, con una decisione non vincolante ma netta, il più importante tribunale dell’Onu abbia dichiarato illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, perché in contrasto col diritto internazionale.
NO OTHER LAND
Scritto e codiretto a otto mani da un collettivo israelo-palestinese, e coprodotto da Palestina e Norvegia, «No Other Land» è un documentario del 2024 che ha vinto a Berlino e trionfato agli Oscar 2025: insieme al regista palestinese Hamdan Ballal e all’israeliana Rachel Szor, i due protagonisti del film sono l’avvocato/attivista palestinese Basel Adra e il giornalista ebraico Yuval Abraham.
Il lungometraggio, che documenta la vita nei 22 villaggi di Masafer Yatta dal 2019 al 2023, ma anche con materiale d’archivio risalente all’infanzia di Basel (inclusa la visita nel 2009 del Primo Ministro inglese Tony Blair), è un misto di girato con la macchina da presa e con il cellulare.
Il pretesto narrativo è la creazione di un poligono di tiro, denominato ufficialmente «Zona di Tiro 918», che avrebbe dovuto prendere il posto dei villaggi rurali lì insediati dal XIX secolo, dopo che la Corte Suprema d’Israele ha respinto il ventennale ricorso degli abitanti di Hebron, o zona «C» della Cisgiordania.
Il film è un susseguirsi ininterrotto di demolizioni di prefabbricati ad opera di ruspe piantonate da cinici soldati, e preannunciati dal solerte perito Ilan, con donne e bambini in lacrime, uomini esasperati e capre, polli e piccioni destinati allo sfratto o alla morte sotto le macerie.
Il sequestro di un generatore porta al ferimento di Harun, che diventerà tetraplegico e morirà due anni dopo il colpo inferto, perché impossibilitato a uscire dai territori per ricevere cure adeguate, ma a ferire la coscienza collettiva sono anche la scena in cui viene distrutto un pozzo, di vitale importanza sia per gli abitanti che per l’allevamento, e i dialoghi fra Basel e Yuval, in cui il primo esorta il secondo a smorzare gli entusiasmi e ad imparare a perdere, perché la risoluzione del conflitto è lontana e loro non possono fare altro che postare video, sperando d’allertare l’opinione pubblica internazionale.
Dopo la vittoria a Berlino, il sindaco della città ha accusato la pellicola di antisemitismo e Yuval, attaccato dall’estrema destra israeliana, non ha potuto far ritorno a casa (e pensare che la sua famiglia è stata decimata dall’Olocausto), mentre ha fatto scalpore il discorso dei due cineasti al momento di ritirare il premio dall’Academy, con Basel pronto a invocare il cessate il fuoco a Gaza, e Yuval la fine dell’apartheid ai danni dei palestinesi, perché non ci sarà mai pace finché lui sarà soggetto al diritto civile e il suo amico a quello militare.
Dal punto di vista strettamente cinematografico, il documentario è una rassegna di case rase al suolo e ricostruite (alcune anche 12 volte!) attorno alla pompa di benzina di Nasser, attivista e padre di Basel, con lo scopo politico di dimostrare la non-violenza dei palestinesi i quali, nonostante la solidarietà (anche giuridica) internazionale, ogni anno vedono respinte il 98% delle proprie richieste di costruzione di immobili da parte del Governo Israeliano, e sono quindi costretti a subire sfratti e demolizioni.
Il lungometraggio termina con una didascalia che sancisce la fine delle riprese prima dell’operazione militare di Hammas del 7 ottobre 2023, e come da quel momento la convivenza fra coloni e palestinesi sia divenuta, se possibile, ancor più cruenta (in una delle ultime scene un cugino di Basel viene ferito a bruciapelo proprio da un anonimo colono).
Al di là delle implicazioni politiche, in questo caso inevitabili e consustanziali ad ogni singola inquadratura, il documentario rappresenta un gesto di fratellanza fra due comunità eternamente ostili, un atto di protesta contro tutte le democrazie occidentali, in evidente imbarazzo per il peso ideologico, militare e strategico di Israele, incapaci di condannarne apertamente l’operato per ragioni diplomatiche o storiche.
«Non esiste altra terra» (No Other Land), dichiara in lacrime la madre di Harun, e l’irruzione di questo documentario nella Hollywood di La La land apre una dolorosa crepa nell’industria dell’intrattenimento, riannodando i fili con un modo di fare cinema che ricorda il neorealismo del Rossellini di «Roma città aperta».