L’articolo 34 della nostra Carta costituzionale recita così: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».
Vale la pena ripartire dai fondamentali per radiografare una situazione, quella della scuola italiana che, al netto dei vari proclami retorici (sia di destra che di sinistra), pare ferma al palo da trent’anni, e che nemmeno lo scossone della pandemia sembra aver migliorato, evidenziando anzi ancora di più tutti i suoi limiti.
Questo articolo non pretende di essere un vademecum risolutivo né una severa reprimenda, visto che professionalità decisamente più competenti del sottoscritto sono al lavoro da decenni per ovviare ai vuoti normativi e alle carenze strutturali, ma si limita a raccogliere i dati cercando di incrociarli in maniera costruttiva, delimitando i focus da approfondire e ricordando, come mi ha sottolineato una docente della primaria non molto tempo fa, che i professori leggono e accettano ormai solo testi scritti da addetti al settore (fiaccati probabilmente da false promesse e iperboli retoriche).
Il numero da cui partire è quello dell’Istat, che evidenzia come in Italia, nel 2022 ,siano stati spesi appena 79 miliardi di euro per la scuola, meno degli interessi passivi della Pubblica Amministrazione, intrecciato col rapporto «Education at a glance 2024” che stima lo stipendio medio di un nostro insegnante intorno ai 31 000 euro annui, ultimo fra i paesi OCSE e fra gli ultimi al mondo; al netto dei 160 euro lordi individuali promessi da Valditara nella nuova legge di bilancio, e dei fondi di Missione 4 del Pnrr destinati per molte regioni agli asili-nido, siamo ben lontani dai parametri stabiliti proprio nel 2022 dalla comunità europea.
L’Ue ha parlato di una copertura del 45% dei bambini (da 0 a 3 anni) e del 96% di quelli dai 3 ai 6 ma sempre l’Istat, attraverso un’elaborazione del suo prospetto ad opera di Open Polis «con i bambini», ha stimato l’offerta media al centro-nord intorno al 30%, e al meridione poco sopra il 15%; restando sempre da questa parte della cattedra, l’Italia è il quinto paese europeo per abbandoni scolastici, nella fascia fra i 19 e i 24 anni, e questo da un punto di vista sociologico dimostra che il problema non è tanto legato ai contesti, più o meno disagiati, ma alla carenza di prospettive future, e quindi il vuoto diventa culturale perché nichilista, e intergenerazionale, senza dimenticare che il 60% degli alunni stranieri nati in Italia (1 milione circa), non vengono ancora considerati italiani.
Se ci spostiamo dal lato dei docenti, nel 2023 i precari sono saliti a 235 mila, i supplenti dai 60 mila del 2016 ai 105 mila odierni, con quelli di sostegno quadruplicati (130 mila), sempre rispetto a nove anni fa.
Ma la domanda, cui ha risposto in modo pertinente la Fondazione Agnelli, sul perché se gli studenti diminuiscono il precariato continui ad aumentare, risiede nell’alto tasso di pensionamento annuo (26 mila), con i supplenti annuali pronti a sostituirli, invece dei nuovi professori, sempre più scarsi nelle graduatorie: la sperequazione fra Nord e Sud complica ulteriormente le cose, visto che gli insegnanti di materie STEM (matematica e fisica) al Nord preferiscono il privato, per ragioni economiche, e non trovano percorsi universitari abilitanti, mentre al Meridione, dove sarebbero più che disposti alla carriera pubblica, scarseggiano i posti ma abbondano i percorsi abilitanti delle università private.
Mentre il ministro dell’Istruzione e del merito (l’assenza dell’aggettivo «pubblica», a fianco del termine istruzione, dovrebbe indurci a un ragionamento ben oltre la semantica) ha ridotto, di raccordo col Ministero dell’Economia, il numero di cattedre da assegnare, dalle 80 mila alle 45 mila, per fare spazio ai vincitori del primo concorso con le regole dettate dal Pnrr, e scatenando le ire di molti genitori e sindacati, visto che così 20 mila cattedre rimarranno scoperte fino a dicembre, le richieste e l’accoglienza del sostegno sono aumentate rispetto allo scorso anno del 7 %.
Il sostegno, spina nel fianco didattico da anni, manca anche lui di adeguati percorsi formativi, soprattutto al Nord (come per le materie STEM) dove ce n’è maggiore richiesta e, in questo quadro tutt’altro che rassicurante, la proposta di Valditara di confermare per più anni i supplenti di sostegno ha scatenato critiche feroci, anche perché contraria alla normativa vigente.
Per aggiungere a questi dati quelli dell’edilizia scolastica, con 69 crolli nell’anno 2023/2024 (praticamente uno ogni 3 giorni), solo il 6% di scuole con adeguati impianti di ventilazione e soltanto sei su dieci in possesso del certificato di agibilità, la vetustà degli edifici, la mancanza di controlli, sia ordinari che straordinari, la scarsa tempestività ai primi segnali di insicurezza strutturale e l’assenza di investimenti ispettivi, le mense in ritardo e i trasporti deficitari, oltre ai costi esorbitanti dei libri scolastici e alle barriere architettoniche, l’inclusione deve diventare una reale priorità nell’agenda politica, e non solo un freccia all’arco del politicamente corretto.
Occorre investire sugli asili-nido, che significa investire sul futuro delle famiglie e sulla ripresa demografica, rispettare il tetto di 25 alunni per classe con un disabile (20, se particolarmente problematico), attivare i percorsi tattili per non vedenti e le segnalazioni visive per gli ipo-utenti, creare un raccordo col mondo del lavoro che non sia finalizzato allo sfruttamento dei più giovani ma al loro reale potenziamento professionale, stabilire patti educativi di comunità che arginino la microcriminalità, lo spaccio, l’abbandono scolastico e investire una volta per tutte e sul serio sulla scuola, invece di triplicare i finanziamenti alle paritarie, com’è avvenuto negli ultimi anni.
Al cospetto di queste problematiche il discorso intorno al voto in condotta di Valditara, e il suo appello a un’educazione civica che sembra più un avviamento al mondo imprenditoriale, sembrano distanti anni luce rispetto alle sesquipedali e drammatiche lacune didattiche, e sempre di più urge una presa di coscienza e un piano di lungo periodo che non preveda il rabbercio ma la programmazione.





