Enea: il cinema «secondo» Castellitto

da | Lug 24, 2024 | MONDOVISIONE

Presentato all’ottantesima Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, salutato da otto minuti di applausi e recensito a caldo dal direttore Alberto Barbera come «La Grande Bruttezza», «Enea» è la seconda prova, attoriale e autoriale, di Pietro Castellitto, dopo il discusso «I Predatori»: coprodotto da Luca Guadagnino, si avvale della fotografia del talentuoso Radek Ladzuk (Babadook), delle musiche di Niccolò Contessa, deus ex machina de «I Cani», del montaggio di Gianluca Scarpa («I Predatori») e delle scenografie di Massimo Nocente.

Nell’esistenziale ricerca di un verismo meta-cinematografico che potrebbe rivelarsi retrattile, Pietro «usa» padre e fratello nei rispettivi ruoli di Celeste e Brenno, affidando alla sempre brillante Benedetta Porcaroli la parte di Eva, fidanzata-trofeo mai rassegnata alla copionale afasia, mentre la madre (Chiara Noschese) conduce una trasmissione televisiva che fa da contraltare ai loschi traffici del figlio, commentati filosoficamente da Giordano, stagionato boss di quartiere interpretato magistralmente da Adamo Dionisi.

L’ormai attore-feticcio del regista, Giorgio Montanini, veste i panni dello scrittore corrotto Oreste Dicembre ma a brillare su tutto il cast è il diamante pazzo di Giorgio Quarzo Guarascio, alias Tutti Fenomeni, (t)rapper capitolino qui nella parte di Valentino, migliore amico di Enea e socio, nella (mala)vita e nell’arte, nonché aviatore dilettante, improbabile cantante neomelodico e gay depresso più che represso.

A chiudere un cast perfetto nella sua incompiutezza c’è sempre lei, la Roma che (non) ti aspetti, mai turistica, sempre iconica, festaiola e decadente, sporca e curatissima, immediata e profonda, bozzettistica e sorprendente, una provinciale festa mobile che nella sua icasticità tenta l’universale e lo fallisce per una bollicina.

TRAMA

Enea, figlio di uno psicoanalista affermato ma infelice e di una conduttrice televisiva che non crede più nel suo lavoro, gestisce un ristorante sushi gourmet ed è socio d’un prestigioso tennis club, ma decide di tentare il colpaccio piazzando un’importante partita di cocaina insieme all’amico Valentino, improvvisato pilota per aerei turistici, entrando così in contatto col trasversale mondo della malavita romana, impersonificato dal bonario Giordano, sempre pronto a dispensare sagaci massime sulla vita e a raccontare la Roma «de na vorta», e la più crudele linea di comando, collusa con la cultura, invisibile e letale.

Mentre una palma crolla nel giardino borghese della casa dei genitori di Enea, che si affannano a sostituire la colf extracomunitaria rientrata da poco in patria, fra feste sature di colori, cocaina e alcol, uno chef orientale che se la fa coi salmoni e gli occhi perennemente drogati e dolcissimi di Valentino (con una madre ricoverata in clinica per depressione cronica mentre lui cerca sempre di ricantare «Spiagge»), il Nostro si innamora di Eva dopo averla vista giocare al tennis club, in una scena che ricorda un po’ Antonioni un po’ «Il Giardino dei Finzi Contini».

La trama, concentrica e postmoderna, tarantinianamente converge a suon di dialoghi ispirati e momenti commoventi verso due finali che colpiscono per violenza espressiva e asciuttezza, nonostante le scene più riuscite siano proprio quelle slegate dal contesto, come i litigi fra Brenno ed Enea o il frammento in cui Eva, in una casa messa a soqquadro da una recente perquisizione, gli chiede cos’abbia nella testa e lui risponde: «Io sono libero.» «No, Enè, tu sei un handicappato.» «E non è la stessa cosa?».

ROMA NO(RD)

Ci sono amore e disamore in questo affresco attualissimo della città eterna, vista dall’alto con effetto plongè dall’aereo di Valentino, le cui scene di volo sono state interamente girate al Teatro 18 di Cinecittà, c’è il grattacielo Eurosky dell’Eur, la terrazza del Pincio, la «Pergola» di Beck, la Chiesa della Santissima Trinità dei Monti, il modaiolo «The Sanctuary» e lo sfarzo di Villa Miani dove tutta la meglio gioventù romana ha vissuto almeno «un diciottesimo», un concerto o un matrimonio, ma ci sono anche l’inettitudine e la violenza, il vuoto pneumatico di affetti e valori ben rappresentato dall’inevitabile cena post-sorrentiniana, in cui Enea rimprovera al padre e ai suoi coscritti di vivere di rimpianti e rimorsi, mentre Castellitto senior replica laconico di essere nato in una famiglia povera, come se il dato socio-culturale giustificasse tutto.

Non si smarca dalla Roma benestante e fotogenica Pietro Castellitto, e in questa «storia di genere senza genere o gangster movie senza gangster», come lui stesso l’ha definita, c’è la precisa volontà di raccontare un mondo, quello dei Parioli e di Roma Nord, «pieno di storie e leggende incredibili. Mi è sempre sembrato un peccato raccontarlo o criticarlo tout court, come se fosse il trionfo del nulla, o descriverlo in chiave caricaturale», e su questo ritratto patinato e al tempo stesso fallimentare (nel senso che a questo termine avrebbe attribuito un Fitzgerald) il regista e scrittore de «Gli Iperborei» sta costruendo una precisa cifra autoriale che usa come sponda i D’Innocenzo, Mainetti e quel capolavoro generazionale che è stato suo malgrado «La Grande Bellezza», anche se i suoi alter ego non hanno l’ironia blasè di un Gep Gambardella, né il suo cinema la grandiosa geometria delle inquadrature sorrentiniane, ma forse la riconoscibilità di «Enea» sta proprio nel suo approccio marginale e parallattico, nell’utilizzo del genere per poi tradirlo in modo sublime, come quando Valentino storpia il testo di «Spiagge» sniffando cocaina di fronte a una platea di ottuagenari.

«Il paradosso tragico è proprio questo e cioè che la vita la sentiamo meglio in guerra e i due personaggi sono quindi costretti a mettersi in una guerra per sentire la vita», dice Pietro, citando consapevolmente o inconsapevolmente il Moravia de «La Noia», che descriveva il masochismo e il sadomasochismo come pratiche più o meno consce di riappropriazione della realtà contro l’anestesia del potere piccolo-borghese.

Un elemento molto interessante del film è la soppressione dei baci, virati in nero e commentati solo sul piano sonoro, rifiuto di una deriva patetico-sentimentale figlia del politicamente corretto, o intelligente rappresentazione di quel «forse non sa amare» pronunciato da Claudia Cardinale all’indirizzo del Mastroianni di «Otto e Mezzo»?

Solo i genitori di Enea possono baciarsi in chiaro e poi prendere il volo chagallianamente verso il cielo eternamente primaverile di Roma.

Enea e Pietro preferiscono osare più che dosare e non è un caso che i venti milioni di euro che fruttano dalla partita di cocaina corrispondano all’esatto valore del palazzo che un amico di famiglia si lamenta di non aver acquistato quando era ancora un affare, così è meglio lo sputtanamento o «er monno fracico» di cui canta Tutti Fenomeni, che la rassegnazione.

Certo il rischio di quello che Scurati definisce «isomorfismo», e cioè l’innamorarsi di ciò che si critica, è molto alto e la prossima prova di Castellitto ci dirà qualcosa sulla sua comfort zone capitolina, ma quello che sembra caratterizzare tutti i registi del Nuovo Millennio alle prese con Roma è che, come i romanzieri francesi del Novecento che dovevano distruggere Proust, loro hanno provato a distruggere Fellini (e non c’è forma di distruzione più sublime della citazione), ma Federico aveva dalla sua un’ingenuità da corrompere che la contemporaneità non può contemplare: Wilde diceva che al mondo sono solo due le categorie di persone veramente interessanti e cioè chi sa tutto e chi non sa assolutamente niente e nel microcosmo romano degli ultimi vent’anni, mondo più che Italia in miniatura, tutti sanno qualcosa, anche solo per osmosi digitale, e quel qualcosa consente la metamorfosi dello stupore in ambizione, della grandezza in grandiosità, della bellezza in bruttezza.

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