An Elephant Sitting Still: il cerchio Perfetto fra dolore e atarassia di Hu Bo

da | Giu 28, 2024 | MONDOVISIONE

Presentato in anteprima al Forum del Festival di Berlino nel 2018, e vincitore come opera prima, «An Elephant Sitting Still» con i suoi 230 minuti (quasi quattro ore) è il capolavoro esistenzialista del giovane cineasta cinese Hu Bo, discepolo di Bela Tarr, con cui ha eseguito anche un workshop qualche anno prima, e suicida appena ventinovenne, poco dopo averne ultimato il montaggio nel 2017.

Scrittore di racconti e del romanzo che dà il titolo al film, Hu Bo prima di «An Elephant…» aveva girato solo cortometraggi, eppure le quasi quattro ore della pellicola non presentano punti morti né passaggi a vuoto: tutto sembra perfettamente funzionale, esteticamente e fenomenologicamente, a dimostrare una tesi che non esiste visto che ad animare la giornata dei quattro personaggi in scena è il Vuoto più assoluto e un inattaccabile nichilismo, figlio anche di una crisi valoriale data dal distacco fra l’incredibile sviluppo economico-industriale vissuto dalla Cina negli ultimi anni, e l’assenza dell’equivalente evoluzione culturale.

TRAMA

In una città industriale della Cina nordorientale, che per i più non avrebbe nome e che invece qualcuno ha individuato in Shijiazhuang, si sdipana joyceanamente la giornata di quattro personaggi: Bu è un giovane studente innamorato di una coetanea che non lo ricambia, più per ragioni di riscatto sociale che non per una vera e propria assenza di sentimenti, e che, con alle spalle una situazione famigliare borderline, finisce per uccidere involontariamente il bullo della scuola; Cheng è il fratello del bullo che, pur considerandolo un «relitto umano», si mette alla ricerca dell’assassino pressato dai propri genitori e trascinandosi dietro il fardello morale di aver provocato il suicidio del suo miglior amico che lo aveva appena scoperto a letto con la propria donna; Huang è la ragazza di cui è innamorato Bu che, complici un padre assente e una madre ostile e incattivita, intraprende una relazione clandestina col vicepreside della scuola, relazione che verrà palesata da una registrazione su un cellulare che rischia di rovinare lei e il matrimonio dell’uomo; infine, Wang è un anziano ex militare che dovrebbe andare a vivere in una casa di riposo per consentire alla nipotina un percorso di studi adeguato e una vita migliore, anche perché l’unico vincolo affettivo che gli impedisce di farlo, il suo amato cagnolino, viene sbranato da un enorme randagio di fronte ai suoi impotenti occhi.

In un vertice concentrico di violenza, disperazione e individualismo narcisistico senza alcuna traccia di speranza, le vite dei quattro protagonisti (e va ricordato che in Cina, come in molti altri paesi orientali, il numero quattro è sinonimo di morte e/o malaugurio) si intrecciano convergendo sul fatuo desiderio di vedere l’elefante del circo itinerante nella città di Manzhouli che, nutrito o attaccato, resta comunque immobile, simbolo di stoica accettazione o muta rassegnazione alla crudeltà della vita.

Bu (la cui assonanza col nome del regista/sceneggiatore non può non indicarcelo come vero protagonista del film), con un padre poliziotto corrotto e ormai infermo e una madre incapace di opporglisi, vedrà cadere prima l’amore e poi l’amicizia e l’accidentale violenza in cui scivolerà, più per disperazione che per scelta, lo condannerà a un cinico eremitismo che Cheng, criminale consumato e capo di una gang, gli vaticinerà fumando l’ennesima sigaretta, lui che vive tragicamente le proprie colpe fingendo di scaricare la responsabilità del suicidio del suo migliore amico sulla donna amata che, respingendolo, lo avrebbe gettato fra le braccia della sua compagna.

L’ingenuità che dovrebbe accompagnare l’epifania del mistero sessuale viene sacrificata da Huang sull’altare di un’improbabile ascesa sociale e di un disprezzo dei sentimenti ben impartitole da sua madre, moglie delusa che odia sua figlia perché le ricorda ogni giorno il naufragio del proprio matrimonio verso una spirale di squallide avances e ristrettezze economiche; il personaggio potenzialmente più puro, anche anagraficamente, è o dovrebbe essere il vecchio Wang, involontariamente trascinato nella vicenda di Bu, che cerca di aiutarlo così come cerca di salvaguardare la nipotina e il cucciolo che gli trotterella a fianco, ma il suo monologo poco prima dell’epilogo ci ritrae un uomo non coraggiosamente trincerato dietro le proprie convinzioni e nemico della spirale violenta che lo travolge, ma meschinamente rassegnato alla barbarie di una vita il cui senso è imperscrutabile e negletto.

TANTO A COSA SERVIREBBE…?

Primi piani così feroci che sembrano quasi annullare i lineamenti dei protagonisti, come per le maschere del teatro nipponico, lunghi piani sequenza ma senza i tipici tremolii del moderno neorealismo, a indicare una coscienza registica più che matura, inquadrature decentrate in pieno mood «decadrage» e sfocature che accompagnano un cinema di pedinamento, o di «nuche», come lo ha definito qualcuno: lo stile registico di Hu Bo, esaltato dalla fotografia desaturata di Chao Fan in grado di riprodurre un’infinita scala di grigi, ha una mobilità voyeristica che trasforma lo spettatore nell’alter ego dell’attore, e questa nervosa andatura sfocia poi in inquadrature fisse di geometrica crudeltà il cui simbolismo rende la città il manifesto di un’alienazione ineludibile.

Binari morti e treni in partenza così come il continuo boato di presse industriali fanno da sfondo all’immobilità esistenziale di Bu, Cheng, Huang e Wang: la sporcizia e i colori itterici di questa periferia del mondo sono il deprimente contraltare allo sviluppo asiatico, la sua cattiva coscienza (anche) ecologica che vomita povertà e abbandono scolastico, disgregazioni famigliari e squallido opportunismo, in una cieca rincorsa al successo che può e deve avvenire sempre a scapito di qualcun altro, con buona pace dell’olismo e della dialettica marxista.

Espressioni come «non devi diventare un buono a nulla», «e perché, cosa cambierebbe?», oppure «Non piangere.», «e perché non dovrei?» culminano nel discorso del vecchio Wang secondo cui ogni posto vale l’altro visto che dappertutto ci sono lo stesso dolore e disperazione, al punto che forse converrebbe restare dove si è nati e accettare lo squallore della propria vita, guardando a un altrove potenzialmente diverso ma già sapendo che non lo si raggiungerà mai.

«La scuola verrà demolita e voi finirete a vendere cibo per strada», sentenzia il vicepreside senza amarezza, come un inebetito vate, e l’intera parata genitoriale di «An Elephant…» è in effetti un malinconico affresco di fallimenti, mediocrità, vigliaccheria e persino cattiveria, al punto di vanificare qualsiasi rito di passaggio o scontro generazionale: «perderete, come abbiamo perso tutti», sembrano sussurrare gli adulti, nella migliore ipotesi con pacata convinzione, nella peggiore con trionfale malvagità.

Analizzare quest’incredibile opera prima (e ultima) alla luce del suicidio del suo giovane regista è un errore comune anche all’esegesi di molte carriere letterarie (vedi D.F.Wallace), ma la lucidità e la scarsa contingenza della pellicola creano una dimensione catartica estranea ad ogni riduzionismo: il barrito finale senza l’agnizione del famoso elefante non è un barlume di speranza al termine dei tanti tunnel inforcati dai protagonisti, come qualcuno ha voluto ottimisticamente interpretare, ma il segno che non c’è nulla di diverso dietro la collina.

Non arriveranno Godot né la dittatura del proletariato e se all’Apocalisse di San Giovanni segue il regno di Dio, alla nostra seguirà solo l’infinita reiterazione del Male.

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