Franco Percoco: gruppo di famiglia in un Inferno

da | Giu 18, 2024 | MONDOVISIONE

Come spesso accade (o dovrebbe accadere), tutto nasce da un libro e precisamente da «Percoco» (Mondadori editore), un romanzo psicologico più che un noir, scritto dal veterinario e romanziere Marcello Introna imbattutosi in un trafiletto di giornale che parlava dell’omonimo caso giudiziario mentre svolgeva delle ricerche per un altro true crime: da lì la produzione (Altre Storie più Rai Cinema) ha passato il progetto per un lungometraggio al regista Pierluigi Ferrandini, storico sodale di Sergio Rubini, che prima di mettersi alla macchina da presa, ne ha anche scritto la sceneggiatura.

Fondamentale la fotografia di Filippo Silvestris, in grado di slittare da un bianco e nero espressionista ai colori saturi di una Bari in pieno boom economico, ma anche le musiche del trombonista e compositore svedese Christian Lindberg, che commentano l’inquietudine silente del protagonista e gli imperturbabili primi piani, filtrando attraverso le polverose quinte della casa che fu teatro degli angosciosi eventi.

Prezioso il cameo di Michele Mirabella e le interpretazioni di Rebecca Metcalf, nei panni della fidanzata Anna Tiezzi, e di Laura Gigante, in quelli di Maria Panebianco, ma su tutti inevitabilmente svetta la prova attoriale di Gianluca Vicari, la cui mimica facciale ricorda quella di un giovane Brando o del miglior Rogowski, e che ha dichiarato in un’intervista di aver modellato l’espressione del suo personaggio in un contrastato cambio di luce fra la parte superiore del volto, impassibile, e quella inferiore, mobile e tormentata in quanto foriera di menzogne.

Nonostante quello di Percoco non sia affatto il primo caso documentato di serial killer in Italia, il titolo del film, «Percoco, il primo mostro d’Italia» fa sicuramente riferimento al primo stragista famigliare che le cronache tricolori ricordino, nonché al triste detentore di un macabro record, e cioè l’aver convissuto per ben dieci giorni coi cadaveri dei famigliari uccisi sotto lo stesso tetto in via Celentano 12 a Bari.

Secondo lo scrittore Marcello Introna, la mente di F. Percoco, altresì detto «Il Mostro di Bari» o «la Belva di Via Celentano», «non era psicologicamente diversa da quella di un rottweiler lasciato a digiuno da almeno una settimana».

TRAMA

Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1956, il ventiseienne Franco Percoco, durante una tremenda mareggiata che travolse il porto di Bari, uccise i propri genitori e il fratello minore affetto dalla sindrome di down, infierendo poi sulle vittime con un numero infinito di colpi arrivando persino a rompere l’impugnatura del coltello da cucina e ferendosi al palmo di una mano.

Il film inizia con l’analogia visiva fra il temporale e la doccia che fa il protagonista (medicandosi poi la mano), quasi per lavar via biblicamente la colpa o l’oppressivo peso famigliare subito da troppi anni, ma non mostra l’accaduto: come in un giallo esistenzialista, aiutati dall’onniscienza mediatica della cronaca, noi sappiamo già chi sia Percoco e cosa abbia fatto e quindi il senso di immedesimazione cresce mentre lo vediamo ripulire tutto e occultare i cadaveri nella camera da letto dei genitori, sigillandola con carta da pacchi guarnita di ovatta intrisa di profumo da donna, per poi raccontare ai condomini e agli amici più intimi come i Suoi siano partiti col notturno delle 23 45 per il consueto e annuale soggiorno alle Terme di Montecatini.

I soldi, borghesemente conservati in una scatola insieme alla pensione riscossa recentemente da sua madre, divengono il serbatoio per un nuovo guardaroba d’alta sartoria, bottiglie di cognac, macchine a noleggio e solitarie cene al più prestigioso ristorante fronte-mare di Bari, ma anche il viatico d’accesso allo stile di vita raccontato da Hollywood e dalla nascente televisione, e in tal senso è emblematico l’approdo dei frigoriferi elettrici in città, che rischiano di cancellare il lavoro di un suo amico che taglia e vende lastre di ghiaccio per conservare gli alimenti.

L’incursione di condomini e vicini di pianerottolo che lamentano un tremendo tanfo proveniente proprio dalla stanza dei genitori minacciano il fittizio fidanzamento di Franco con l’ingenua Tina, corredato da regali costosi e promessa di matrimonio, e gli incontri a quattro con un’altra coppia proprio nella casa del misfatto, tra fiori e deodoranti, talco sui materassi e musica ad alto volume; le notturne visite a un bordello e il ricordo di Maria, prostituta napoletana ritornata a casa e presumibilmente unico vero amore di Franco, aprono degli squarci ingenerosi sul passato del N(m)ostro, incapace di completare gli studi nonostante la vivace intelligenza, affetto da frequenti crisi di nervi, con un ingestibile fratello minore nascosto ai più e quello maggiore spacciato per morto in guerra, laddove era invece in carcere per ripetuti furti e sospetta cleptomania.

La crepa che Percoco scoprirà sopra il talamo (feretro) nuziale dei suoi, malamente nascosta dalla carta da parati e colpevole di diffondere il nauseante tanfo della decomposizione nel palazzo, lo convincerà a partire licenziando frettolosamente Tina e conducendolo prima a Napoli, nella vana speranza di ricongiungersi a Maria, e poi ad Ischia, ormai latitante, preda di deliri alcolici e violente cefalee, oltre che vittima di una probabile cancrena alla mano mai medicata.

La frase pronunciata ai due poliziotti che lo troveranno, nella cronaca giudiziaria è: «Vi seguo», mentre nella trasposizione filmica diviene un accorato e intriso di sollievo: «Aiutatemi».

LA PROSSIMITA’ DEL MASSACRO

Come nello sconvolgente «La Zona d’Interesse», recente trionfatore agli Oscar 2024, anche in «Percoco…» noi percepiamo il massacro per intermediazione testuale e per l’odore che ci viene trasmesso visivamente dai fiori secchi, dalla stantia carta da parati, dalle mosche e dal salotto tardo-ottocentesco ingombro di amorini, specchi e languore barocco.

L’enorme lavoro documentale svolto prima dallo scrittore e poi dal regista (5000 carte processuali consultate) ha portato quest’ultimo a ricostruire la casa dei Percoco nei minimi dettagli, grazie anche alle foto d’epoca della Scientifica, proprio come Jonathan Glazer e la sua troupe hanno fatto con l’abitazione degli Hob adiacente al campo di concentramento di Auschwitz, e questa tecnica di disallineamento sensoriale che ci porta a sfiorare l’orrore che già conosciamo, ce lo rende più intimo e angosciante; attraverso la finzione borghese di Percoco noi riusciamo a immedesimarci con lui come coi volenterosi carnefici nazisti di Glazer, e a capire che la mostruosità non è un altrove malato che non ci riguarda ma una linea di demarcazione molto sottile, sottile come un muro di cinta o una striscia di carta da parati imbevuta di profumo.

La principale critica che si potrebbe rivolgere al regista è l’aver taciuto il passato del mostro, un soffocante affresco fatto di pressioni famigliari, alienazione, sifilide, esaurimenti nervosi, furti, fughe da casa e una probabile malattia mentale mai diagnosticata o colpevolmente sottovalutata, ma io credo si sia trattato più di una scelta per virare sull’analisi sociologica del consumismo nascente e sull’impossibilità del protagonista di aderirvi in maniera conformistica.

Riesumare Percoco dal rimosso del True Crime nazionale è stata anche un’occasione per ricreare un fedele ritratto dell’Italia del boom economico e della Bari post-bellica, e in questo l’operazione registica di Ferrandini è perfettamente riuscita.

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