Cento domeniche: la classe operaia non va in Paradiso (nemmeno fiscale)

da | Apr 30, 2024 | MONDOVISIONE

«Cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?», scriveva Bertold Brecht ed anche se Antonio Albanese non oblitererebbe tale aforisma, in quanto difensore della Finanza «giusta» e non nemico a priori del macrosistema creditizio, sembra un principio coerente per introdurre il suo ultimo film da regista/protagonista, e cioè «Cento Domeniche».

Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma nel 2023, e scritto insieme al sodale Pietro Guerrera, il quinto lungometraggio da regista dell’attore e interprete brianzolo non è una commedia ma un dramma girato proprio nella «sua» Olginate, insieme a un cast che ha creduto a questo progetto durato due anni, e che proprio Albanese ha coprodotto dopo un intenso lavoro preparatorio: sono stati un giornalista esperto in crack bancari e una psicologa specializzata in traumi causati da questo tipo di eventi a fornire il loro prezioso contributo alla lavorazione del film, e ad apporre l’imprimatur della credibilità sull’opera ultimata.

Mai sopra le righe Maurizio Donadoni e Bebo Storti, efficaci Sandra Ceccarelli e la quasi esordiente Liliana Bottone, per non parlare della maiuscola prova di Giulia Lazzarini (ancora in grado a novant’anni, e dopo la rottura del femore, di recitare un monologo a teatro), per una pellicola dalla forte impronta autobiografica visto che la fabbrica e il tornio dell’Antonio-operaio sono gli stessi dell’Antonio-attore fra i 16 e i 22 anni, e che Albanese ha una figlia e una madre della stessa età del personaggio interpretato, ed anche con una certa somiglianza estetica.

Un’ultima considerazione sulle musiche, completamente assenti nella prima parte dell’opera perché il regista voleva riprodurre «i rumori della provincia», e che poi sono state affidate a Giovanni Sollima, violoncellista e compositore che ha già collaborato con Albanese per un melologo alla Scala, col preciso intento di commentare a livello sonoro il climax ascendente della storia.

TRAMA

Antonio Riva è un esperto tornitore che ha lavorato una vita in un cantiere navale sul lago di Lecco, in cui continua a prestare la sua opera nonostante sia ormai pensionato perché deve mantenere la madre novantenne con problemi d’udito, e finanziare l’imminente matrimonio della figlia Emilia, rituale su cui i due fantasticano sin dalla sua più tenera età.

La rottura con la storica amante (sposata) per una presunta fuga di notizie sulla loro relazione coincide con le insistenti voci sulla crisi della locale banca, alla quale Antonio ha richiesto parte della cifra lì depositata per far fronte alle prossime spese nuziali, e il cui nuovo direttore ha convinto a investire non in obbligazioni ma in azioni, il cui rendimento «galopperebbe»; tra titoli di giornale nefasti, un giovane barista che insieme alla ex moglie lo esorta a ritirare i propri soldi finché è in tempo, e il suicidio di un impiegato onesto che non regge all’onta di aver ingannato gli storici risparmiatori del paese vendendo loro prodotti tossici, Antonio capirà che il denaro messo da parte in una vita di sacrifici se n’è letteralmente andato in fumo.

All’incredulità seguiranno il panico e la vergogna, il sostegno dei pochi amici che comunque ne criticheranno l’ingenuità, e infine l’isolamento e la rabbia che lo allontaneranno anche dal sostegno psicologico fornito da un’associazione di volontari, fino al punto di recarsi in banca col vestito ordinato su misura per il matrimonio della figlia a chiedere informazioni proprio al direttore di cui si è fidato, perché per lui la banca è sempre stata «un confessionale» ed in fondo «chi li ha mai letti per intero i contratti che ti danno da firmare?»

L’epilogo, tragico ed estremamente realista, ci ricorda le sorti di centinaia di migliaia di risparmiatori, in Italia e non, ponendo l’accento sulle conseguenze individuali e sociali di tali derive creditizie, in grado di distruggere intere comunità sempre meno capaci di far rete e sostenersi, anche per il venir meno di appoggi politici e sindacali, spesso indifferenti se non conniventi con determinati avvenimenti.

DESERTIFICAZIONE E ALIENAZIONE

Se è vero che qualcuno ha criticato «Cento Domeniche» (il titolo deriva dal periodo necessario a uno dei co-protagonisti per costruire da solo la propria casa nei momenti liberi dal lavoro), perché fine a sé stesso o poco approfondito nell’analisi integrata del crack bancario descritto, è altrettanto vero che la struttura politico-sociale del nostro paese è radicalmente cambiata rispetto ai film di denuncia di autori quali Petri o Rosi, e che l’intento di Albanese era quello di rappresentare proprio la solitudine di un risparmiatore ingannato, e il mutare della sua fiducia tradita prima in colpa quindi in rabbia: l’elemento centrale è senza dubbio quello finanziario, negarlo sarebbe pura ipocrisia, ma il venire meno di una fiducia trentennale e il crollo dell’autostima di uno di quelli che il regista definisce «primi e non ultimi», in quanto costruttori silenziosi della provincia italiana, è il vero tema del film.

«Cento Domeniche» infila il dito nelle piaghe trascorse di colossi quali Parmalat e Monte dei Paschi, ma anche in un fenomeno attualissimo come la desertificazione bancaria: nonostante i principali gruppi italiani quali Unicredit e Intesa San Paolo godano di ottima salute, da un lato le fusioni (dal 1993 la quantità di istituti di credito è più che dimezzata), dall’altro la chiusura di ben 826 sportelli nel 2023, hanno fatto levitare a 4 milioni e 373 mila il numero di persone che attualmente nel nostro paese non ha possibilità di accesso fisico ad alcun presidio bancario.

Si tratterebbe, almeno nel nostro paese, di un processo inarrestabile che potrebbe portare a un vero e proprio allarme sociale, visto che attualmente solo il 51% dei risparmiatori utilizza l’internet banking contro il 63,9% dell’UE, e che ad essere colpiti sarebbero proprio gli anziani e le persone con un basso livello d’istruzione, senza dimenticare che, come visto, tale desertificazione non si impone per tagliare costi a fronte di una crisi, e che negli Usa colossi come jp Morgan e Bank of America stanno invece aprendo centinaia di filiali.

Il film di Albanese racconta il dramma di un uomo comune preso in una ragnatela di responsabilità condivise fra operatori di sportello ricattati e imprenditori tesi a salvare solo il proprio bottino, ma in un’intervista rilasciata proprio alla vigilia dell’uscita di Cento Domeniche, il regista già evidenziava l’inutilità di proteste e lotte se poi chi viene giudicato colpevole non sconta mai alcuna pena.

La banca, soprattutto in realtà di provincia ma non per questo marginali, è stata per decenni un punto di riferimento coma la farmacia o il municipio, e ha contribuito a costruire la ricchezza e l’onorabilità di intere comunità, il suo astrarsi a mero box di prelievo o il frantumarsi nella liquidità del pos(t)modernismo rappresentano il dominio dell’algoritmo sul valore personale, e sotto questo punto di vista la parabola morale di Antonio Riva è un insegnamento prezioso e un necessario monito.

La risposta alla terapeuta che ne segue la caduta nell’insonnia, intesa come privazione dei sogni, non ce la fornisce il mite tornitore ma il candore di una delle maschere interpretate dall’Albanese comico, e cioè Epifanio, che esortava col suo humor straniante e quasi surreale «a fare sogni internazionali».

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