Natura morta o in morte della natura?

da | Apr 23, 2024 | IN PRIMO PIANO

Mentre cresce il fronte dei negazionisti climatici, che ingrossano le fila di quel fenomeno antropologico più vasto e intergenerazionale che è il complottismo, è un dato di fatto che negli ultimi mesi si siano battuti (al rialzo) dieci record di temperatura sul pianeta e adesso i climatologi si interrogano sulla fine di El Niño, evento ciclico e naturale legato alla circolazione delle correnti che compare ogni 3/7 anni, e che porta a un generale aumento delle temperature.

Questo fenomeno, legato all’aria, agli alisei e alle temperature dell’acqua, è iniziato il giugno scorso e ha portato a piogge torrenziali nell’America Meridionale (e a Dubai), alla siccità in Africa e a spaventose ondate di calore negli Stati Uniti e in Australia, il cui Ufficio Meteorologico ne annuncia la fine ma si dichiara scettico sull’avvento della sua nemesi climatica , e cioè la Niña, che dovrebbe subentrare ad agosto, farsi sentire maggiormente in inverno e durare 2/3 anni: il Noaa (National Oceanic and Atmospheric Adiministration) statunitense parla invece di una probabilità del 60% di un suo avvento, con un generico abbassarsi delle temperature globali, anche se le aree maggiormente interessate non sarebbero quelle europee ma le regioni del Pacifico centro-meridionale.

Eppure, nonostante l’Europa sia poco o per niente interessata da entrambi questi fenomeni, gli ultimi dieci mesi sono stati i più roventi della sua storia, quindi gli scienziati si dividono fra chi ritiene la combo El Niño/riscaldamento globale l’unica responsabile dell’impennata delle temperature e chi invece l’attribuisce anche all’abbandono di solfati e polveri raffreddanti (inquinanti, e quindi messi giustamente fuori legge, ma in grado di riflettere parte delle radiazioni), e alla mole di vapore acqueo emesso a livello planetario dall’eruzione del vulcano Tonga nel 2022.

I prossimi mesi (e anni) saranno un importante banco di prova per perimetrare i principali fattori di surriscaldamento globale: se la Niña non si determinerà o, pur costituendosi, le temperature aumenteranno ancora, nonostante la fine di El Niño, allora potrebbe validarsi l’ipotesi di innesco di nuovi feed back non previsti e l’avvinarsi del tanto temuto «tipping point», e cioè la soglia di non ritorno vaticinata da molti.

Il clima riguarda tutti ma nell’era dell’infodemia, in cui le immagini precedono e prevaricano le parole, e le didascalie sostituiscono l’approfondimento, letteralmente divorato dall’intrattenimento, ha senso interrogarsi su come la nuova società dello spettacolo rappresenti l’ecocidio in atto, al di là della retorica e del green washing.

Al Wildlife Photographer of the Year choice Award, concorso internazionale  di fotografia promosso a partire dal 1965 dal Bbc Wildlife Magazine (cui si è unito dal 1984 il Museo di Storia Naturale di Londra), a inizio febbraio la giuria popolare di 75 000 persone ha selezionato una cinquina di finaliste davvero rappresentative: una «tartaruga felice» che gioca con una libellula ripresa in Israele da Tzahi Finkelstein; due leonesse che baciano un cucciolo nel branco, foto scattata in Kenya da Mark Boyd; meduse che riflettono l’aurora boreale su un fiordo norvegese ad opera di Audun Rikardsen; stormi di uccelli nei cieli romani che compongono, come frattali, la sagoma di un gigantesco volatile, ad opera di Daniel Dencescu; la foto vincitrice, dal titolo «letto di ghiaccio», è stata scattata da Nima Sarikhani, e ritrae un orso bianco addormentato su un atollo alla deriva sull’arcipelago norvegese delle Svalbard.

L’immagine, che ha fatto il giro del mondo intenerendo tutti per la posa fetale del titanico predatore, racchiude in sé una terribile e scomoda verità perché lo scatto, effettuato da un fotografo dilettante durante un tour in nave di appena tre giorni e non da un etologo dopo mesi di accorti appostamenti, racconta un’anomalia comportamentale ormai evoluta (o involuta) in triste prassi: gli orsi bianchi del Circolo Polare Artico vivono da sempre sulla terra ma per cacciare le foche si spostano per centinaia di chilometri via mare, usando i ghiacci per riposare ma, negli ultimi tempi, con lo scioglimento/arretramento delle calotte, la loro ricerca è diventata sempre più difficoltosa e il sostentamento estenuante.

Il «letto di ghiaccio» ritratto nella foto potrebbe essere un feretro in via di scioglimento e non il candido cuscino di un sonno ristoratore, con buona pace delle migliori intenzioni dell’artista e dei sentimenti solidali dei fruitori: sotto questo punto di vista, il romanticismo insito nelle fotografie finaliste del prestigioso concorso muta nel decadente scenario di un’umanità costretta al voyerismo di ciò che ha essa stessa determinato, intriso della nostalgia cui accennava Naomi Klein in «Una Rivoluzione ci salverà», e cioè la consapevolezza di ammirare e godere di una Natura che fra qualche decennio potrebbe svanire o modificarsi profondamente.

Sempre restando nell’ambigua malia delle immagini, dal 12 al 21 marzo scorso si è tenuta presso palazzo Valdina (Camera dei deputati) la mostra «Natura Morta. In consegna.», un’esposizione degli scatti della fotoreporter tedesca Britta Jaschinski, cofondatrice di Photografers Against Wildlife Crime, con l’obiettivo di denunciare i trofei della caccia grossa nei safari ad opera perlopiù di élites occidentali.

Nei dieci anni tra il 2012 e il 2022, L’unione Europea ha infatti importato ben 27 000 trofei di caccia da animali appartenenti a specie protette dalla Commissione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione, posizionandosi al secondo posto come importatore mondiale dopo gli Stati Uniti (in Italia nello stesso decennio ne sono stati importati ben 492): si tratta del risultato venatorio di esosi tour che possono arrivare a costare anche 100 000 euro, e che si accompagnano a suggestive e raccapriccianti descrizioni delle discutibili mattanze.

Al di là dell’ideologia coloniale, antropocentrica e sanguinaria che si cela dietro questa pratica, si tratta anche di un’abitudine dannosa per l’ambiente dal punto di vista selettivo, visto che gli esemplari prescelti devono essere dei maschi adulti in piena fase riproduttiva (leoni dalla criniera più folta e scura, rinoceronti dai corni più sviluppati, elefanti dalle zanne più imponenti), con le immaginabili conseguenze per l’ecosistema e per la biodiversità, per non parlare dell’ingannevole pretesto dell’aiuto alle comunità locali, visto che la cifra pagata dai cacciatori (ad esempio in media 40 000 euro per sparare a un elefante maschio) è irrisoria rispetto agli introiti che lo stesso esemplare potrebbe fruttare nel lungo periodo grazie al turismo fotografico.

La collocazione «istituzionale» della mostra non è stata casuale visto che in Italia l’import/export di tali trofei è ancora legale e che gli scatti della Jaschinski sono il risultato del sequestro alla dogana di «articoli» non regolarmente denunciati: si va da sgabelli ricavati da zampe di elefanti a crani di un’intera famiglia di cercopitechi verdi, passando attraverso pelli d’orso polare, artigli di leone, pantofole ricavate da zampe d’orso, manti di tigri del Bengala crivellate di proiettili e apribottiglie innestate su zampe di leone.

Il disprezzo e la presunta superiorità del genere umano su quello animale si palesano attraverso questo feticismo di cattivo gusto che ricorda l’oggettistica dei lager (tatuaggi utilizzati come quadri o paralumi, ossa trasformate in mobilio e via dicendo), modificando l’essenza stessa della natura morta che a livello pittorico nacque fra i Paesi Bassi e la Spagna per rappresentare la caducità della vita rispetto all’immortalità dell’arte, e che qui diviene invece estetica di un massacro silenzioso e inutile, glorificato indegnamente dalla metamorfosi del selvaggio in ornamentale.

Nel 1984 Victor Hugo scriveva: «è triste pensare che la Natura parla e il genere umano non l’ascolta», ma oggi noi dovremmo ricordare che ogni estinzione, dal punto di vista morale, equivale a un’autoestinzione».

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