Felice Lasco è il nome del protagonista dell’ultimo film di Mario Martone, uscito nel 2022, co-sceneggiato con la moglie Ippolita Di Majo, e ispirato all’omonimo e postumo romanzo di Ermanno Rea: interpretato da un efficace e camaleontico Pierfrancesco Favino, Felice si muove in una Napoli sospesa fra tradizione e postmodernismo, storia e sfascio, cercando di recuperare un passato che, come il suo cognome, è allentato, lasco, un nodo che non ne vuol sapere di venire al pettine, e questo perché dietro l’apparente immobilità del Rione Sanità, si agitano i tarli di una mutazione incessante, sociale e antropologica, che da sempre e per sempre fa di Napoli la quinta vivente di un teatro assoluto.
Il funzionamento di un film è un complicato intreccio di equilibri e «Nostalgia», oltre all’intelligente trasposizione in fase di scrittura del romanzo di Rea e alla prova attoriale di Favino, registra l’accurata sinfonia dei comprimari, con un Tommaso Ragno mai così a fuoco e in grado in poche scene di imprimersi nella memoria dello spettatore, un Nello Mascia (Raffaele) che incarna la napoletanità buona ma non inconsapevole, e soprattutto Francesco di Leva che ha vinto il David di Donatello come migliore attore non protagonista nel 2023, per Don Luigi, prete militante e deuteragonista di «o Mal’omm».
Le scenografie di Carmine Guarino e la fotografia di Paolo Carnera, due giganti del cinema italiano, fanno di «Nostalgia» un lungometraggio importante, non a caso selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2023, oltre ad una prova che chiude l’ideale trilogia martoniana su Napoli, dopo «Il sindaco del Rione Sanità» e «Qui rido io»; un’ultima menzione va ad Ermanno Rea, giornalista, scrittore e fotoreporter partenopeo, scomparso nel 2016, e di recente al cinema non solo con «Nostalgia» ma anche con «Caracas», di e con Marco D’Amore, tratto dal suo «Napoli ferrovia».
TRAMA
L’imprenditore edile Felice Lasco, dopo quarant’anni spesi fra Libano, Sudafrica e Egitto torna a Napoli dove ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza e, non appena ritrovata la madre, invecchiata e non più lucida, in un cadente seminterrato del rione Sanità, e averle restituito amore e dignità, stringe amicizia con Don Luigi, un prete giovane e anti-camorrista, e con Raffaele, maestro di sartoria (e storico spasimante di sua madre) che ne ricorda la giovinezza turbolenta e condizionata dal fraterno rapporto col violento Oreste.
Mentre la Napoli più popolare e chiassosa penetra fra le maglie dell’integerrima morale (ormai islamica) di Felice, il passato del ragazzo che fu, disancorato e vitale, torna a fargli visita attraverso l’espediente visivo di ricordi in formato ridotto e seppiati, stile super otto, rivelando un tormentato trauma mai risolto.
In una confessione laica, ma dal sapore stoico, Felice racconterà a Don Luigi di una serata maledetta vissuta proprio con l’amico Oreste, nel frattempo divenuto il temuto e latitante boss locale detto «o Mal’omm», e di come gli avvenimenti di quella notte abbiano condizionato in modo indelebile le vite di entrambi.
Fra avvertimenti di stampo camorrista (moto incendiata e pareti di casa imbrattate), la protezione del parroco che non lo fa mai circolare da solo per i vicoli della città e gli presenta senza filtri le famiglie cui porta conforto e speranza, e la ricerca spasmodica del «suo» Oreste, quando tutti, preoccupati per la sua incolumità, gli consigliano di tornare dalla bella moglie al Cairo, si arriverà al confronto col Mal’omm e all’apparente riconciliazione con un passato oscuro.
L’epilogo, tragico ma non scontato, ci ricorda che, nonostante l’epigrafe pasoliniana («la conoscenza è nella nostalgia,/ chi non si è perso non possiede»), il Nostos può essere un’ingannevole pretesa di restaurare l’irrestaurabile e che vivere malinconicamente ciò che è stato può essere lirico se non evocativo, ma pretendere di risolverlo senza accettarne il mistero, può avere conseguenze nefaste.
LA MONNEZZA
Nonostante l’apertura presso il Centro Direzionale (nel quartiere delle dichiarazioni moderniste), dove inizialmente risiede Felice, «Nostalgia» è una pellicola di vicoli e catacombe, ipogea come il passato che custodisce nelle sue sismiche viscere, e la Napoli che ne affiora è una metropoli araba a e silenziosa, multietnica e pagana, punteggiata da altari ed edicole votive, ma anche dal passaggio di adolescenti che sparano in aria nel cuore della notte, e da una cittadinanza omertosa ma mai collusa, segnata da una povertà atavica e sottoproletaria che le impedisce l’unanime condanna a una malavita che affonda le sue radici nel brigantaggio e nella malinconia (per l’appunto) borbonica.
Un cinema fatto di cinema, come ogni cinema dovrebbe, che richiama nell’incipit «Taxi Driver» e «Ultimo tango a Parigi», e al tempo stesso letterario col mito omeriano dell’esule che ritorna alla sua Itaca, ma anche con vaghi richiami manzoniani all’Innominato, quando Felice raggiungerà bendato il covo di Oreste, impaurito ma anche emozionato, schiavo di un destino tutto sommato retrattile come la lama di un coltello a serramanico.
«Noi dobbiamo essere come i raggi del sole che si poggiano in copp’ a munnezza ma non si sporcano mai», esclama Don Luigi durante l’omelia funebre all’ennesimo ragazzo falciato dalla Camorra, e «monnezza» è il termine che utilizza anche Oreste per definire l’impero su cui domina, senza casa, famiglia né Dio, ed è proprio la sua figura, che attraversa incappucciata la Sanità come un Papa in incognito, ad incarnare un Male quasi astratto nella sua incomunicabilità, disperato e solitario, molto lontano dagli scenari nepotistici e strutturati cui un certo cinema, da Ford Coppola a Gomorra, ci ha abituato.
Non c’è redenzione per questo tipo di Male, così come non c’è redenzione per la Napoli martoniana, perché il crimine è intrecciato alla sua poesia come i rampicanti che vediamo nei cortili distrutti, fra le facciate in eterno restauro e l’urbanistica precaria, e la violenza che ne alimenta le fondamenta è necessaria alla bellezza come la terra vulcanica al segreto della sua agricoltura.
Felice mastica l’italiano robotico dell’esule di vecchia data, ma mentre si riappropria del suo passato ricomincia a parlare in napoletano e il dialetto che riemerge carsicamente dalle catacombe delle sue colpe ne ottunde la fede islamica, al punto che alle abluzioni purificatorie che precedono l’invocazione ad Allah, si sostituirà il bicchiere di vino rosso offertogli evangelicamente da Don Luigi, durante una cena corale in Sanità.
La piattezza dei personaggi femminili e i pochi squarci retorici di «Nostalgia», vengono riscattati pienamente dalla scena in cui Felice fa il bagno alla madre mentre lei piange per l’imbarazzo e l’intimità ritrovata, e dalla figura di Don Luigi la cui chiesa, più che aperta quasi anatomicamente ferita dalla possibilità di un futuro diverso, inaugura un nuovo Barocco fatto di dipinti sacri e legni di sagrestia, ma anche di sacchi da boxe, improvvisati palchi da orchestra e ripari per chi fugge da scomode verità o ricordi ingombranti.
La Nostalgia non è il fallimentare tentativo di (far) rivivere il passato, ma l’accettazione di non averlo mai attraversato pienamente.