Nella Convenzione di Istanbul (2011), ratificata in Italia nel 2013, all’articolo 17 si ricorda a chi fa informazione «nel rispetto della loro indipendenza e libertà d’espressione, di partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità», disposto che è in parte confluito nell’articolo 5 bis del T.U. dei doveri dei giornalisti, e che può trovare la sua attuazione anche nel Manifesto di Venezia (2017).
Quest’ultimo, dichiarazione d’intenti e non carta deontologica, ritrova la sua radice nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 2008, quando l’International Federation of Journalist, attraverso il suo Gender Council, e grazie alla collaborazione della presidente di Giulia Giornaliste Marina Cosi, ha elaborato un decalogo che illustrava le modalità su come fare informazione sul tema.
Analizziamo insieme i dieci punti che sono poi confluiti nel Manifesto di Venezia:
- Inserire nella formazione deontologica obbligatoria sul linguaggio appropriato, come trattare i casi di violenza sulle donne e sui minori;
- fare attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate per evitare stereotipi di genere r mantenere un comportamento professionale;
- adottare un linguaggio declinato al femminile per ruoli professionali e cariche istituzionali, per riconoscere alle donne la propria dimensione professionale, sociale, culturale;
- attuare la «par condicio di genere» nei talk show e nei programmi d’informazione;
- utilizzare il termine «femminicidio» e superare la vecchia cultura della «sottovalutazione della violenza», fisica, psicologica, economica, giuridica e culturale;
- sottrarsi ad ogni tipo di strumentalizzazione per evitare di raccontare «violenze di serie A e di serie B»;
- illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati, come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, e utilizzare per raccontarli il corretto linguaggio di genere;
- mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza, e dare voce a chi opera in loro sostegno;
- evitare ogni tipo di sfruttamento ai fini commerciali della violenza sulle donne;
- dissociarsi da espressioni irrispettose, denigratorie o comunque lesive della dignità e dell’identità femminile, da termini fuorvianti come «amore», «raptus», «follia», «gelosia» o «passione» per descrivere crimini scaturiti da volontà di possesso e/o annientamento, ma anche da immagini o segni stereotipati che riducano la donna a un mero «oggetto del desiderio», e soprattutto astenersi dal fornire attenuanti all’omicida attraverso motivazioni come «perdita del lavoro», «depressione», «difficoltà economiche», «tradimenti» e via dicendo, ricordandosi di raccontare il femminicidio (o l’episodio di violenza) dal punto di vista della vittima e non del colpevole.
Sono quasi cinquantamila l’anno i femminicidi nel mondo (circa 133 al giorno) e il geniale neologismo della scrittrice Kate Manne, utilizzato nel libro «The Logic of Misoginity», e cioè «himpathy», sembra raccogliere a contrario il decalogo appena visto, soprattutto le preziose indicazioni contenute al punto dieci. L’himpathy, letteralmente «empatizzare con lui», è la tendenza a raccontare, da un articolo di giornale alla sentenza di un giudice, un gesto violento compiuto da un uomo nei confronti di una donna dal suo punto di vista, descrivendone in maniera diffusa le motivazioni ma anche connotandone le caratteristiche personali, professionali e ambientali, e riducendo quelle della vittima a un semplice sfondo o stereotipo.
Ciò che ne consegue è un’inevitabile colpevolizzazione della persona offesa («victim blaming»), l’ignoranza delle vittime secondarie (figli e mariti delle uccise) che si rintanano nel silenzio sociale e istituzionale, e il proliferare della vittimizzazione secondaria, che è una narrazione tendenziosa e polarizzata in grado di uccidere due volte l’assassinata, per non parlare della vittimizzazione terziaria, consistente nella mancata e tardiva giustizia, e in quest’ultimo caso va tenuto conto anche dei tempi biblici italiani e della vergogna che spinge una donna a denunciare una violenza in media dopo ben otto anni di maltrattamenti.
Si chiamano «orfani speciali», i figli delle vittime di femminicidi, un esercito muto e non censito di cui si era occupata la criminologa Anna Costanza Baldry, prematuramente scomparsa, che fra il 2000 e il 2014 ne aveva individuati ben 1600, sepolti nel disinteresse generale e nell’ignoranza delle istituzioni ma non solo, visto che sono pressoché sconosciute le due leggi stilate a loro vantaggio: la n.4 del 2018 che prevede il cambio del cognome, il divieto per gli assassini di accedere all’eredità, un fondo per i parenti affidatari e l’assistenza nei processi, e la legge n. 122 del 2016, che prevede indennizzi fino a 50 000 euro per le vittime di crimini violenti.
L’ignoranza dei propri diritti, pantografata dall’omertà del dolore che porta all’autoghettizzazione, riguarda anche le donne scampate alla violenza domestica del partner, che spesso non sanno di poter usufruire a caldo di una casa rifugio, segreta e protetta, e successivamente di una casa «ponte» o semiautonoma, non più segreta ma ancora protetta, che consenta loro di recuperare un equilibrio e un’autonomia economica e professionale, anche grazie al reddito di libertà, e cioè quei 4000 euro che l’INPS destina alle vittime di violenza, erogati in una soluzione unica.
Nella piramide della violenza di genere immaginata dal quotidiano la Repubblica nel febbraio scorso alla base troviamo il già visto «victim blaming» ma anche lo «slut shaming» (lo stigma della prostituta, per donne dalla condotta sessuale non tradizionale) e il «locker room talk» (vanterie a sfondo sessuale in ambienti prettamente maschili), per poi salire al revenge porn, allo stalking e al cat calling (commenti volgari e insulti sessisti) ma, prima arrivare alle vere e proprie molestie sessuali e al vertice del femminicidio, si attraversano le violenze psicologiche, fra le quali rientrano i ricatti morali, la manipolazione e le minacce di suicidio, i ricatti economici, la coercizione riproduttiva (controllo assoluto sulla scelta riproduttiva della donna) e lo «stealthing», e cioè la pratica di rimuovere o danneggiare il preservativo senza informarne il partner.
La narrazione della violenza di genere deve rifuggire da ipertrofie linguistiche, perifrasi e eufemismi (lo stupro è stupro e non un rapporto sessuale non consensuale), ma anche dalla scorretta pratica dell’incidentalismo e cioè il derubricare l’atto violento a episodio occasionale, per non parlare della romanticizzazione del gesto, descritto come culmine di un carattere passionale o momentaneo raptus dettato dalla gelosia, fenomeno ambivalente che può avvenire anche attraverso immagini della coppia felicemente abbracciata, laddove il titolo racconta di un feroce omicidio.
Gli esempi, giornalistici e giudiziari, sono infiniti al punto che sono sorti dei veri e propri osservatori (anche universitari), a dimostrazione che nell’era delle iperboli e dell’infodemia, le parole devono ritrovare il loro basilare patto con la responsabilità, soprattutto se descrivono il silenzio non colpevole ma colpevolizzato delle vittime.