La zona d’interesse: la prossimità del male secondo Jonathan Glazer

da | Mar 18, 2024 | MONDOVISIONE

Non si erano ancora spenti i riflettori sul red carpet che già deflagravano le polemiche per il discorso di Jonathan Glazer al momento del ritiro dell’Oscar per il miglior film straniero: «in questo momento rifiutiamo che l’ebraicità e l’Olocausto siano depredati da un’occupazione che ha mietuto vittime innocenti […] che siano le vittime del 7 ottobre in Israele o l’attacco in corso a Gaza, tutte vittime di questa disumanizzazione, come possiamo resistere?»

Fra i detrattori spicca chi ha accusato il regista londinese di fede ebraica di aver strumentalizzato la propria ebraicità (e l’Olocausto), in qualche modo rinnegandola, e questo dopo aver vinto il massimo riconoscimento cinematografico su una messa in scena relativa proprio alla Shoah, mentre invece in molti hanno applaudito il suo coraggio e la voglia di attualizzare i contenuti del lungometraggio che, vale la pena ricordare,  è liberamente ispirato all’omonimo romanzo del britannico Martin Amis, venuto a mancare alla vigilia della prima proiezione in sala.

Il film, una produzione anglo-polacca diretta e sceneggiata da Glazer stesso, con disturbanti musiche di Mica Levi («Jackie» e «Under the Skin») e la fotografia naturalistica affidata a Lukasz Zal, aveva già vinto il Gran Prix speciale della Giuria a Cannes 2023 e alla notte degli Oscar 2024, candidato a 5, ne ha vinti due, quello come miglior lungometraggio straniero e quello per il miglior sonoro: per ciò che concerne quest’ultimo, va ricordata l’espressione utilizzata per descrivere il sound design e cioè «genocidio ambientale».

Monumentali le prove attoriali di Sandra Hüller («Anatomia d’una caduta») e Christian Friedel («Il Nastro Bianco»), per un’opera che si pone come ideale anello di congiunzione fra la frase di Adorno: «scrivere poesie dopo Auschwitz è una barbarie» e il desiderio più volte espresso da Jean Luc Godard di concepire film sull’Olocausto solo a patto che non mostrassero i campi di concentramento.

TRAMA

Siamo nella Polonia del 1942, e lo capiamo anche dalla radiocronaca della partita di calcio Italia-Spagna, giocata a San Siro il 19 aprile di quell’anno, mentre Rudolf Höss, comandante e architetto di Auschwitz, si gode la propria abitazione immersa nel verde con la moglie Edwig e i cinque figli: fra bagni e battute di pesca nel limitrofo lago, aperitivi con gli amici nel giardino dai fiori sgargianti, con tanto di serra e piscina, un personale di servizio silenzioso ed efficiente, e la visita della suocera ansiosa di riabbracciare sua figlia, tutto sembra raccontare il perfetto ritratto della famiglia alto-borghese tedesca.

Eppure, il muro di cinta del giardino è proprio la linea di confine col campo di concentramento di Auschwitz, e lo si intuisce dal filo spinato e dalle ormai (anti)iconiche torrette impresse a forza nella nostra memoria collettiva; mentre la famiglia Höss si spartisce degli abiti confiscati agli ebrei e i giovani figli giocano addirittura con dei denti estirpati, il perfetto funzionario Rudolf ragiona coi dirigenti della Topf und Sons per un efficientamento della produzione (!), prima di essere riassegnato vicino Berlino per gestire la deportazione di 700 000 ebrei ungheresi (che lui definirà «pezzi», in perfetto gergo industriale), affinché il 20% di loro possa essere utilizzato come manodopera, e il restante 80 finisca nei forni crematori.

I giorni si susseguono identici nel contrasto fra la vita bucolica della famiglia Höss e il tappeto di urla, spari e latrati che provengono dall’adiacente abominio, finché la madre di Hedwig non se ne andrà, lasciando una lettera che la figlia brucerà senza darcene lettura, probabilmente scioccata dall’eccidio in corso, e quando la donna apprenderà che il marito è stato riassegnato a Berlino gli chiederà di poter restare ad Auschwitz coi bambini, perché quella è la loro casa ed è lì che lei li vuole crescere, in mezzo alla Natura, con del cibo sano e delle abitudini rette.

Dopo un festino che celebra i trionfi del Reich, fra croci uncinate di ghiaccio, alcool e danze sfrenate, Rudolf chiamerà sua moglie confessandole di aver desiderato nel bel mezzo dei festeggiamenti, di «gasare tutti» e, prima di abbandonare il palazzo e perdersi nella dissolvenza dei piani inferiori, avrà un conato di vomito ma senza riuscire a liberarsi.

GRANDE FRATELLO AUSCHWITZ EDITION

Per «zona d‘interesse» (Interessengebiet) si intendevano le 25 miglia intorno al campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf Höss, giovane e stimato SS, era stato il creatore e costruttore, dall’iniziale struttura carceraria per prigionieri sovietici alla versione definitiva che inizierà ad utilizzare l’infame Ziklon B; Chris Oddy, che ha visitato sei o sette volte l’abitazione originale, costruita nel 1937 e occupata dal 1940, è lo scenografo che l’ha ricostruita in scala per il film (più piccola ma con le proporzioni debitamente rispettate), lavorando per due anni e mezzo al giardino, ai pavimenti a spina di pesce e riproducendo esattamente i mobili che erano nuovi quando i coniugi tedeschi presidiarono per la prima volta l’alloggio.

La domotica, fondamentale nel cinema degli ultimi anni, da «Dogtooth» a «Parasite», è qui centrale poiché non è stato possibile girare all’interno della casa originale (patrimonio Unesco, insieme al campo) e nella sapiente ricostruzione di Oddy sono stati praticati trenta fori per le telecamere nascoste, al punto che le 850 ore di riprese complessive, poi asciugate dal montaggio, sono sembrate più un documentario sulla vita quotidiana delle SS o un reality, stile Grande Fratello, sul Nazismo.

I dialoghi, ridotti all’osso, hanno fatto ancor più risaltare la fotografia stile Douglas Sirk e le geometrie squadrate, kubrickiane, con abbondanza di inquadrature fisse e rari piani-sequenza, ma soprattutto l’artificio caro ai film di genere, e cioè la rilevanza dei secondi e terzi piani che non fanno mai dimenticare allo spettatore cosa sta avvenendo sullo sfondo, solo che in questo caso ai margini dell’inquadratura non c’era uno zombie o una presenza infestante à la «It Follows», ma la banalità del male di harendtiana memoria.

La telecamera termica, che mostra in negativo le incursioni notturne nel campo di un’inserviente polacca che nasconde mele per i prigionieri, è un prezioso innesto favolistico in un meccanismo diurno che non lascia tregua, liberando un vero e proprio «odorama» del male: oltre ai suoni, che se fossimo inconsapevoli potremmo scambiare per quelli di una normale fabbrica, la pellicola letteralmente gronda dell’aroma dolciastro della morte, della cenere che plana sul lago e feconda gli orti, e del letame che il giardiniere spande sui coltivi a ridosso del muro, metafora orribile e orribilmente calzante di ciò che accade a pochi metri se non centimetri da lì.

I tedeschi sapevano e non hanno fatto niente (doveroso rileggere il saggio «I Volenterosi carnefici di Hitler»), ipnotizzati dalla propaganda hitleriana e dai sogni di espansione ad Est, pompati dalla discutibile filosofia dello spazio vitale, ma l’operazione di Glazer rende «La zona d’interesse» un unicum perché rovescia il punto di vista, obbligandoci a notare non le differenze ma le similitudini con una «normale» famiglia tedesca degli anni Quaranta: la Interessengebiet ci riguarda tutti perché, con buona pace di quello berlinese, l’Occidente intero vive a un muro di distanza da innumerevoli genocidi e si preoccupa di cosa mangiare o di dove andare in vacanza, tappandosi le orecchie per non sentire cosa succede dall’altra parte.

Il lavarsi ossessivo di Rudolf dopo un adulterio, gesto borghese e in un certo senso cattolico da parte di un uomo- che uccide ogni giorno 12 000 persone dà la misura del livello di spersonalizzazione raggiunto, come l’innocente gioco dei suoi figli, uno dei quali (in uniforme) rinchiude nella serra l’altro mentre, al di sopra del muro di cinta, sbuffa il fumo nero di un treno in arrivo, pedagogia rovesciata che non può non aver segnato più di una generazione.

L’improvviso salto temporale dell’epilogo, con le moderne immagini museali di Aushwitz, pulita e tenuta in ordine dagli inservienti, non è l’ennesimo e retorico memento di ciò che è stato, ma la riproposizione del maniacale ordine che fu, e di cui interiormente non ci siamo affatto liberarti.

Ralph Fiennes sparava a caso sull’inerme massa di prigionieri da dentro il campo di concentramento di «Schindler’s list», mentre Höss ne fissa le torrette e il filo spinato dal secondo piano di casa, pronto non a premere il grilletto ma a firmare sgomberi di migliaia di persone (pezzi): dalla follia della sostituzione etnica alla scopofilia della distruzione, dal mito della razza all’apocalisse dei droni.

Persino la noia, che qualche poco avveduto critico ha rimproverato al film, cadendo a piedi pari nell’auto-sgambetto dell’intrattenimento, è funzionale allo shock provocato da Glazer, che non ci ha voluto trasmettere la banalità ma la quotidianità del male, coi suoi riti tremendamente simili ai nostri, e la capacità di sbadigliare di fronte all’ennesimo massacro sulla Cnn.

La morale, se ne è rimasto qualche brandello dall’osceno pasto del Novecento, è che nessuno è innocente, nemmeno le vittime che saltano dalla parte opposta del muro.

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