As Bestas: duello rusticano in Galizia

da | Mar 6, 2024 | MONDOVISIONE

Il cinema di Rodrigo Sorogoyen, sin dagli esordi con «Stockholm» nel 2013, dove devianza mentale e amore puro si intrecciavano fino all’inevitabile, e tragico, epilogo, è carsicamente attraversato dalle correnti della violenza, cifra umana declinata nei suoi molteplici aspetti che si precisa a lungo andare in una cadenza mitica: la corruzione politica ne «Il Regno» (2018), metafora complessa della trasversale infezione del potere, l’ossessione confinante con l’incesto in «Madre» (2019), il limite nell’uso legale della forza nella serie tv «Antidisturbios» (2020), una sorta di «Diaz» spagnolo, e la caccia all’uomo su sfondo religioso in «Che Dio ci perdoni» (2016), che è valso un premio Goya all’attore-feticcio Roberto Álamo.

In «As Bestas» (2022), il regista madrileno riconferma il cerchio magico di sempre, scrivendo a quattro mani la sceneggiatura con Isabel Peña, e affidando la fotografia ad Álex de Pablo e le musiche al compositore parigino Olivier Arson, che ha lavorato di sottrazione utilizzando archi e legni alternati al ritmo tribale del tamburo argentino «bombo legüero».

Il film, che ha raggiunto il sesto miglior incasso in Spagna nel 2022 e vinto ben 9 premi Goya, convincendo sia critica che pubblico, si ispira liberamente a un episodio di cronaca nera: nel 1997 l’olandese Martin Albert Verfondern si è trasferito con moglie e figli a Santoalla, in Galizia, alla ricerca di un posto «senza il nucleare», dov’è stato ucciso nel 2010.

Alla base dell’omicidio una faida famigliare tra gli olandesi e gli autoctoni Rodriguez, da quando Martin (titolare di diritti su 500 ettari di bosco limitrofo) non aveva accettato di far installare sul proprio territorio 25 pale eoliche, privando della stessa possibilità gli amici/rivali galiziani che, visti sfumare i soldi della multinazionale interssata, hanno iniziato a boicottarne i raccolti e a sopprimerne il bestiame, fino ad ucciderlo e ad occultarne il cadavere.

TRAMA

Olga e Antoine sono una coppia francese che si è trasferita in Galizia per praticare agricoltura biologica e turismo sostenibile; i rapporti coi locali, tesi sin dall’inizio per lo scontro fra le idee progressiste di Antoine (ex professore universitario) e le rigide tradizioni della comunità spagnola, diverranno apertamente ostili quando questi deciderà di rifiutare i soldi di una multinazionale norvegese, intenzionata ad installare pale eoliche sui suoi territori e su quelli dei suoi vicini.

Nonostante gli amichevoli tentativi di Antoine di dialogare col rude e carismatico Xan e col folcloristico fratello Lorenzo, il loro raccolto verrà sabotato e i due galiziani inizieranno a tormentare la coppia francese, costringendo l’uomo a documentare il tutto con una videocamera.

La sparizione di Antoine, e l’inettitudine se non la connivenza della polizia locale, che in un passaggio del film giungerà addirittura a criticare il professore per aver fatto pesare la propria superiorità intellettuale sugli incolti contadini del posto, porteranno la moglie Olga a battere individualmente il territorio, destando la preoccupazione di sua figlia che, giunta in visita durante un rigido inverno, la accuserà apertamente di aver perso la ragione.

Il finale, che a differenza della cronaca, non si concentra sulla chiusura degli eventi giudiziari, mette in evidenza il coraggio ferino di Olga che difende il proprio territorio, la propria casa e la memoria del marito, continuando a lottare contro l’ignoranza e la reticenza dei galiziani, e istituendo una sottile rete d’alleanza con le donne del posto.

LA RAPA DAS BESTAS

La pellicola inizia con la didascalia de «La Rapas da Bestas», la tradizione galiziana degli «aloitadores», che immobilizzano a mani nude i cavalli per tagliarne la cresta e poi marchiarli; le successive immagini al rallenty di tre uomini che atterrano violentemente un destriero, oltre che una meravigliosa coreografia, sono una sorta di prequel di quanto accadrà al mite e corpulento Antoine.

In una cornice che vuole riprodurre, a detta dello stesso Sorogoyen, le atmosfere decadenti di grandi western come «Cane di Paglia», «Gli Spietati» o «Sentieri Selvaggi», anche grazie ai tanti piani-sequenza e alle riprese 2:35 in Cinemascope, la paesaggistica oscura e i luminosi primi piani sintetizzano subito il primato del territorio sull’individuo, e l’estetica da assedio tipica del cinema di frontiera americano.

Fisiognomicamente simile a «Un tranquillo week end di paura», coi corpi dei locali che sembrano impastati della stessa terra che coltivano e i volti sagomati in un’espressione di demente sagacia, «As Bestas» rinnova l’eterno scontro fra Natura e Cultura, ma impregnato degli avvenimenti politici degli ultimi dieci-quindici anni, che hanno visto il Popolo come categoria assoluta (dalla rust belt a stelle e strisce all’operosa Brianza) virare in nero le proprie preferenze politiche e obliterare l’ottica del Capitale, laddove la borghesia progressista, intellettuale e benestante, ha sposato paradigmi internazionalisti, ecosostenibili e un laicismo di sinistra vicino ad ogni forma (talvolta ipocrita) di tolleranza.

Il rovesciamento di As Bestas frantuma il politicamente corretto e ci riconsegna da una parte uno sparuto gruppo di contadini per niente fieri della terra dei propri padri, e ansiosi di intascare l’assegno dell’icastica multinazionale pur di raggiungere la città e togliersi di dosso secoli di inutile fatica e mal di schiena, e dal lato opposto gli stranieri, innamorati della rude bellezza galiziana, che non si accontentano di fare i turisti ma «giocano agli agricoltori», potendosi permettere di lasciar riposare il terreno o di ristrutturare case a fondo perduto, in nome di un possibile, e poco probabile, turismo sostenibile.

Xan è legato alla propria terra non da un debito di riconoscenza ma da un ereditario credito di miseria, ed è per questo che il suo voto conta più di quello di Antoine, e poco importa che i soldi delle pale eoliche siano un’elemosina, perché sul piano simbolico sostituiscono l’impossibile riscatto culturale che l’ex docente universitario vorrebbe per loro, cadendo nell’equivoco del Nostro Pasolini, e di molti altri intellettuali post-marxisti.

Inspiegabilmente nessuno ha citato il bellissimo «Il Vento fa il suo giro» di Giorgio Diritti, in cui un contadino francese con moglie e tre figli si trasferisce in un immaginario borgo occitano nel cuneese a 1300 metri d’altitudine, per sfuggire al nucleare e fare il formaggio, e lì vive, dopo un’iniziale ed entusiastica accoglienza, la retorica dell’escluso à la Dogville di Lars Von Trier, ma nella drammaturgia di As Bestas vibra anche l’anti-retorica del Pavese di «Paesi Tuoi», romanzo in cui incesto e violenza distruggevano il mito bucolico dell’agreste Italia, come per «La Malora» di Fenoglio e in tanta letteratura post-bellica.

Il dialetto diviene resilienza a un cosmopolitismo di maniera che vuole imporre i propri archetipi totalmente slegati dal territorio, e due nuove forme di violenza si intrecciano: il duello rusticano di Goya, primitivo e ancestrale, vede da un lato Xan e Lorenzo, brutali servitori della Storia e della Natura, ciechi figli di un regionalismo chiuso come le gole galiziane, e dall’altro Antoine, esportatore di una democrazia (demagogia) che in nome della sostenibilità tende a demolire ogni forma di tradizione, costringendo migliaia di contadini sudamericani a coltivare ed esportare quinoa ed avogado, per nutrire il senso di colpa ecologista dell’Occidente.

E quando Xan, nel saloon-emporio di paese, giocando a domino e bevendo liquore fatto in casa, dice ad Antoine: «Noi puzziamo di merda», non può non tornare in mente il «siamo davvero pietosi» di Cinico tv, ed anche noi, come l’obeso e flatulento Paviglianiti, officeremo al rito catartico dell’autodenigrazione esclamando: «Certamente».

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