Uno studio di pochi mesi fa, analizzando l’Olanda e in particolare la città di Groninga, metteva in evidenza tutti i limiti dell’offerta universitaria italiana, non tanto dal punto di vista qualitativo ma integrato ai costi, allo stile di vita e al livello dei servizi offerti: nella città dei cieli grigi, degli sporadici slogan xenofobi «Dutch First!» e della discutibile offerta gastronomica (la specialità locale è l’Eierbal, un uovo sodo impanato), il governo rimborsa agli iscritti metà affitto e per chi lavora anche solo otto ore settimanale ma in regola, la paga è doppia rispetto alla media europea.
Il termine di paragone con l’eccellenza tricolore rappresentata da Pisa, dove gli studenti costituiscono il 50% degli abitanti, è schiacciante dal punto di vista degli stranieri visto che, nonostante gli universitari della provincia olandese siano solo il 20% del totale, i non autoctoni arrivano al 27% contro il 4% del polo toscano; complice la Brexit, che ha provocato anche il dirottamento di molte aziende britanniche in Olanda, e le lezioni tenute tutte rigorosamente in inglese, ma anche il computo delle rette annue che nella nazione del fish and chips variano dai 20mila ai 25mila euro e che a Groninga scendono alla più che competitiva cifra di duemila e rotti, nella caratteristica città fiamminga sono sbarcati nel 2022 122mila studenti, composti da 23 000 tedeschi, 7600 italiani, 6700 rumeni, 5600 cinesi e via dicendo.
La necessità del passaporto e le difficoltà sia nel trovare un lavoro decente che un alloggio adeguato, hanno svalutato il mito londinese, ma anche i 16 000 euro annui della Bocconi e il caro-affitti meneghino hanno reso Milano inaccessibile a molti studenti europei, che le hanno preferito l’oasi olandese dove, al netto di una certa rigidità culturale e di un’accoglienza urbana non proprio mediterranea, le più che golose borse di studio, le piccole classi più da seminario che da corso, la disponibilità dei docenti (la cui retribuzione fa impallidire quasi tutte le maggiori università europee) e gli aiuti statali, hanno reso il paese di Erasmo (Erasmus) da Rotterdam the next big thing accademica.
Nel frattempo in Italia (come il cartonato di un film d’autore), parallelamente alle grida di giubilo dell’Istat che certifica nell’ottobre del 2023 un tasso occupazionale al 61,8% che comunque non scalza l’Italia dall’ultimo posto in Europa, va considerato un drastico calo delle ore lavorate e, con una popolazione in età attiva in diminuzione, anche un vertiginoso aumento del part-time involontario: si assiste, più o meno impotenti, al triste dualismo di un lavoro «scelto» di medio-alto livello in cui si modula l’orario a misura d’uomo, e un lavoro «povero» in cui oltre a sgobbare tantissimo e guadagnare poco, si vorrebbe un full time che non viene concesso, o si lavora full time ma pagati part-time.
È uno studio del 2023 (Navigating the Precarious Path: Understanding the Dualisation of the Italian Labour Market trough the Lens of Involuntary Part-Time Employment) a dimostrare come tra il 2004 e il 2019 la quota del part-time sia passata dal 12% al 21%, e cioè un quinto del totale occupazionale, ma il dato più allarmante è quello del triplicarsi dell’involontarietà, e cioè del part-time deciso dal datore di lavoro e non dal dipendente.
Gli scenari interessati da questo fenomeno sono le donne, il Mezzogiorno, il terziario e i giovani con un basso grado di istruzione: in particolare per ciò che concerne il lavoro femminile, il 35% delle donne italiane svolge un part-time (una donna su tre, ma una su cinque non ha scelto di averlo, mentre fra gli uomini siamo a una media di meno di un uomo su dieci) e se è vero che sei su dieci vorrebbero lavorare di più, la quasi totalità di esse viene caldamente scoraggiata dai datori di lavoro a richiedere il full time.
Un altro dato sconcertante, non un’esclusiva ma di certo un primato tutto italiano, è che fra le donne che diventano madri una su cinque smette di lavorare e si unisce a quel terzo di donne che non lavoravano nemmeno prima, al punto che, al di là dei particolarismi e delle singole geolocalizzazioni, si giunge all’ultimatum sociale: o lavori o metti su famiglia.
La fonte, non sospetta né tacciabile di strumentalizzazioni politiche, è il Servizio studi della Camera dedicato all’occupazione femminile, che annovera l’Italia all’ultimo posto in Europa, con record negativi relativi a Neet, part-time involontario, contrattini, lavoro nero, scarne pensioni, basse retribuzioni e poche lauree in discipline Stem.
La scarsità di asili nido e l’elevato costo delle baby-sitter sono due motivazioni fondamentali, ma il divario occupazionale fra uomini e donne è comunque abissale, visto che parte da 17,5 punti e che in presenza di figli lievita al 34%, per non parlare del fatto che le occupate fra i 25 e i 49 anni con un figlio sotto i sei anni sono il 55%, mentre nella stessa fascia d’età, ma senza un figlio, salgono al 76,6%.
Al di là della retorica politica e dalla narrazione cinematografica o letteraria, il «gender pay gap», e cioè la differente retribuzione a parità di mansioni è ancora elevatissima: la direttiva europea 970 sulla parità retributiva, approvata il 10 maggio 2023 e pronta ad essere recepita in Italia il 7 giugno 2026, prevede oltre a un equo trattamento pecuniario fra uomini e donne, la trasparenza delle offerte di lavoro prima del colloquio e a prescindere se la richiedente sia giovane, sposata o…madre, e se si analizzano i dati 2022 su questo specifico problema, si potrà vedere che in termini di lavoro dipendente nel settore privato una donna ha guadagnato in media annualmente 8000 euro in meno rispetto a un collega maschio.
Il gender pay gap, già preoccupante da un punto di vista statistico, diviene allarmante se si considera la crescita esponenziale di donne laureate negli ultimi dieci e più anni, soprattutto in aree periferiche del paese, perché questo vuol dire che la cultura ha perso la sua funzione di mobilità sociale, oltre che quella di riscatto ambientale, e se vogliamo antropologico.
Un’ultima considerazione relativa ai giovani, e in particolare alla generazione Z (18-34 anni), va fatta in termini di astensionismo politico visto che alle ultime elezioni del 2022 si è toccata la percentuale record di 42,7%, e che di questo passo si rischia di scendere alle prossime europee sotto il 50% complessivo; se è vero che di recente si è assistito a una ripresa d’interesse da parte dei più giovani nei confronti di tematiche «calde», come quella ambientale o universitaria, è altrettanto vero che la politica sembra del tutto indifferente alle istanze di una forza votante pari a solo 4,7 milioni d’individui.
Eppure il luogo comune del disinteresse giovanile sembra cadere di fronte all’impennata positiva dell’associazionismo e del volontariato che, soprattutto fra i giovanissimi, sta conoscendo inedite forme di sviluppo: incrociare in modo intelligente l’astensionismo con la crescita del volontariato significa leggere una necessità di attivismo laica e orizzontale, libera e priva di connotazioni politiche, che traccia le coordinate per un futuro libero da ismi novecenteschi, dove il diritto al voto torni davvero a contare e il principio di rappresentanza non sia solo un vuoto meccanismo di reiterazione del potere.