È il 1999 quando una non ancora trentenne Sofia Coppola, dopo alcuni corti fra cui è giusto menzionare l’originale «Lick the Star», gira il suo primo lungometraggio, «The Virgin Suicides», ispirandosi all’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides, uscito nel 1993 e consigliatole dal chitarrista dei Sonic Youth Thurston Moore: la lettura di quel libro cambia per sempre la vita della figlia d’arte che, poco più che ventenne, decide di diventare regista proprio per portare sulla scena quella storia, e ne scrive la sceneggiatura nel 1997, nonostante sapesse ci fossero già altre persone interessate al progetto.
Nel gioco dei doppi che da sempre caratterizza il cinema, per il ruolo di Lux la Coppola aveva pensato a Scarlet Johansson che, nonostante ne fosse incuriosita, alla fine rifiutò ritenendo il copione troppo intenso, e per la parte venne scelta Kristen Dunst, che non ha mai fatto mistero di quanto questo ruolo sia stato determinante per la sua carriera, né di quanta fatica le sia occorsa per interpretarlo al meglio; anche Sofia Coppola venne scelta dal padre per il ruolo di Mary Corleone ne «Il Padrino parte terza», in sostituzione dell’indisposta Winona Ryder e, nonostante le feroci critiche rivoltele per questa sua interpretazione, e l’aver sempre dichiarato di non voler fare l’attrice, sembra che Francis abbia pensato proprio a lei per quella parte mentre stendeva la sceneggiatura.
Presentato a Cannes e uscito in ritardo in Italia col titolo: «Il Giardino delle Vergine Suicide», il film è subito diventato un cult anche grazie alla rarefatta colonna sonora degli Air, altra pietra miliare della cultura «novantiana», e alle prestazioni di livello di James Woods, della sfiorita ma sempre centratissima Kathleen Turner, e del prezioso cameo di Danny De Vito.
Attualmente di nuovo disponibile su Mubi, la pellicola merita una (ri)visione rigorosamente in lingua originale, anche solo per la voce fuori campo di Giovanni Ribisi.
TRAMA
Ispirato a una storia vera, che ha a sua volta ispirato il libro da cui deriva il soggetto, «The Virgin Suicides» narra di una famiglia di Detroit, in Michigan, non a caso città natale di Eugenides, composta da una madre casalinga, da un padre insegnante di matematica e da ben cinque figlie femmine, Lux, Marie, Therese, Bonnie e Cecilia, che vivono i tormenti dell’adolescenza nel clima perbenista e borghese di una città di provincia della metà degli anni Settanta.
La crisi petrolifera, che a sua volta determina quella del mercato automobilistico, fa da sfondo a un’infezione che sta colpendo gli alberi cittadini, e che non sembra voler risparmiare l’adorato olmo di famiglia, cui le sorelle sembrano molto attaccate così, dopo l’inspiegabile tentativo di suicidio della giovane Cecilia, con tanto di taglio di vene e santino imbrattato di sangue, i Lisbon decidono di dare una festa ed invitare anche dei ragazzi affinché lei migliori, come suggerito dal bolso analista interpretato da De Vito, la propria vita sociale.
Durante il party serale si consumerà la tragedia, quando la piccola Cecilia si tufferà dalla finestra finendo conficcata nelle sagitte della ringhiera del giardino, scatenando il panico generale.
Nell’eziologia rovesciata tipica della cultura americana, verrà rimossa la ringhiera del giardino, invece di indagare le cause del gesto, mentre la stampa nazionale, allarmata dal vertiginoso aumento di suicidi giovanili, cercherà di intervistare le quattro e bionde sorelle superstiti.
Nonostante il clima oscurantista e retrogrado di casa Lisbon, Lux (Kristen Dunst) riuscirà a strappare l’autorizzazione per il ballo studentesco cui andrà con Trip, il bello della scuola, coinvolgendo anche le sorelle coi reciproci accompagnatori; fra bionde trecce e abiti bianchi che simulano castità, un innocuo liquore alla pesca e qualche giro d’erba, le sorelle faranno ritorno a casa all’orario prestabilito, mentre Lux e Trip passeranno la notte sul campo da football (anche se lui l’abbandonerà inspiegabilmente ben prima del suo risveglio), decisione che costerà alle giovani ragazze una severissima rappresaglia.
Ai ragazzi del quartiere, tutti innamorati e al tempo stesso incapaci di carpire il mistero delle sorelle, non resterà che spiarle tramite un cannocchiale, oppure comunicare con loro in morse attraverso l’accensione e lo spegnimento delle lampade interne, finchè Lux non li inviterà a casa per una festa segreta dopo che i genitori si saranno addormentati, e lì andrà in scena il terribile epilogo già spoilerato dal titolo del film/libro.
SUICIDI D’AUTORE
Nonostante, a distanza di più di vent’anni, l’opera possa apparire un po’ lenta e forse didascalica, la cura formale per i dettagli minori (che ricrea un immaginario puberale à la Twin Peaks) e la mitologia pop del ballo studentesco alla Carrie di De Palma, creano la giusta cornice per un film girato con grande sobrietà e senza alcuna voglia di strafare, ma anche col rispetto che la post-adolescente Coppola riserva ai turbamenti di un’età difficile, spesso sottovalutata e troppo spesso strumentalizzata.
L’unica critica che si potrebbe rivolgere a una pellicola ben invecchiata, è la mancanza di un vero approfondimento psicologico dei personaggi che sembrano più archetipi, ma il quintetto delle vergini, che in realtà rappresenta un mutevole sguardo su un’unica ragazza ripresa sotto diverse prospettive o sfumature caratteriali, pur senza l’inquietudine lynchiana, riscatta, insieme all’ironia di alcuni dettagli (il nome dei ragazzi che Lux scrive sulla biancheria intima facendo infuriare sua madre), l’eccessiva linearità di certe scelte.
«Lei non è mai stato una ragazzina di tredici anni», dice Cecilia all’analista dopo il primo tentato suicidio, e di questo indefinito mistero femminile si permea il fascino de «Il Giardino delle Vergini Suicide», mistero che i ragazzi del quartiere cercano inutilmente di sciogliere, tentando di colmare la distanza prima culturale poi fisica dalle Lisbon attraverso frammenti di diario, immagini rubate, flânerie esotiche, frasi colte da una quotidianità apparentemente insignificante, e che il gesto finale trasfigura in definitiva e incolmabile.
Il suicidio rende eterna (eterea) la bellezza diafana delle cinque vergini che più che morire sembrano scomparire come le protagoniste di Pic Nic a Hanging Rock, maledicendo chi le ha amate come il vile Trip, che intervistato da adulto dichiara di essere in terapia e di non aver ancora capito perché quella notte abbandonò Lux sul campo da football, e cristallizzando il dualismo invalicabile col mondo adulto, prosaicamente fondato sul verbo cattolico, quanto il loro è paganamente imperniato sull’inespresso del Mito.