Il 2023 si è chiuso con gli impegni programmatici di Cop 28 e col freno normativo della Ue all’intelligenza artificiale tramite l’AIA (Artificial Intelligence Act), ma anche con la sottolineatura del ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, sull’importanza dello sviluppo nel nostro paese dell’industria estrattiva di terre rare.
Secondo l’Ispra (Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale) di queste 34 materie prime fondamentali per la transizione ecologica e digitale, ben 16 sarebbero presenti in Italia ma la loro ultima mappatura risalirebbe al lontano 1973, visto che nel frattempo quasi tutte le miniere sono state abbandonate non perché giunte ad esaurimento ma per gli alti costi necessari a renderle tecnologicamente avanzate e sostenibili dal punto di vista ambientale; molto più economico importarle a basso costo da altri paesi, è stato a lungo detto da governanti di diversa estrazione politica, eppure la recente guerra in Ucraina e la fragile situazione in Medio Oriente, hanno drasticamente mutato scenario e adesso il primato della sicurezza nazionale sulla convenienza economica sembra scontato.
L’Ispra ha individuato circa tremila siti minerari abbandonati in Italia (alcuni addirittura da secoli) e fra ne questi spicca uno fra la Toscana e l’Alto Lazio, dove già negli anni Settanta erano stati individuati giacimenti ipogei di litio, che di recente l’azienda australiana Vulcan Energy ha esplorato (insieme a Enel Green Power) giungendo alla conclusione che, a differenza di Australia e Sudamerica dove l’impatto ambientale sarebbe esiziale, in questo caso con dei tubi che convogliano i liquidi geotermici in un impianto, si potrebbe estrarre il litio a zero emissioni di carbonio, ma anche produrre energia elettrica.
Nel giacimento di Pimpaludo, in provincia di Savona, è presente invece una riserva accertata di nove milioni di tonnellate di ossidi di titanio (la più grande concentrazione d’Europa) ma, a parte i limiti legati all’estrazione per l’ubicazione del sito nel geoparco Unesco del Beigua, la roccia di Pimpaludo è talmente dura che ne esiste un solo equivalente mondiale in grado di produrre ricchezza, e cioè la miniera attiva di Daixan in Cina.
È sempre l’Australia a mostrare interesse per le terre rare tricolori e lo dimostra la licenza ottenuta dall’azienda Altamin, nel 2019, per cercare cobalto a Usseglio, in provincia di Torino, nelle vicinanze di miniere che risalgono addirittura al 1753, e la stessa Altamin si sta battendo, di recente anche grazie all’appoggio finanziario del fondo Appian natural resources, per riaprire la miniera di zinco di Gorno, nel bergamasco, progetto su cui sarebbe disposta ad investire ben 120 milioni di euro (cui si sommerebbero le risorse Appian) generando circa 200 posti di lavoro, incontrando però il veto prima del Ministero della Cultura e poi di quello della Transizione Ecologica, visto che la zona è stata trasformata da anni in un eco-museo.
Oltre alla tutela di un territorio ricco ma molto fragile, e anche qui la politica si divide fra conservatori e interventisti, esiste anche un problema di tempi burocratici, visto che in Cina una miniera si apre in 3 mesi mentre in Europa e in Italia ce ne vogliono fra i 15 e i 17 (anche se il governo Meloni ha stimato di recente fra i 3 e i 4 anni i tempi necessari a rimettere a regime le miniere italiane), per non parlare poi della questione logistica della raffinazione: attualmente la Cina raffina da sola l’80% delle terre rare mondiali e se l’Italia, e per estensione l’Europa, decidessero di rendersi autonome in tal senso per non ridursi a meri poli estrattivi (come di fatto sta accadendo al Sudamerica), i tempi e i costi per la costruzione da zero di impianti di raffinazione, sarebbero davvero proibitivi.
Una delle soluzioni temporanee, ipotizzata da uno studio del maggio 2023 ad opera della European House Ambrosetti, potrebbe essere quella del riciclo dei dispositivi elettronici (tablet/smartphone), visto che in Italia ogni anno ne vengono venduti circa 70 milioni e se ne riutilizzano solo 500 mila, quindi, implementando in modo esponenziale questa declinazione dell’economia circolare, si potrebbe arrivare a coprire fino al 32% del fabbisogno interno di terre rare.
Una delle nuove frontiere estrattive è il «Deep sea mining», visto che in pochi anni siamo passati dal conoscere appena il 5% dei nostri fondali marini al 20%, arrivando alla sconcertante conclusione che in un metro quadrato di terra sommersa sono presenti in media circa 15 chilogrammi di noduli di manganese, nikel, rame, cobalto, titanio, ittrio superiore, ma anche oro, zinco e terre rare (e in alcune zone del globo da 15 si arriva a 75 chilogrammi al metro quadrato), al punto che la Russia si è assicurata una vastissima porzione del Mar Glaciale Artico e che la sola Clarion Clipperton, al largo dell’Oceano Pacifico, conterrebbe una quantità di materie prime strategiche superiore all’intera riserva terrestre.
Complessivamente si parla di 21 miliardi di tonnellate di terre rare incastonate nei fondali marini e oceanici, e in Italia ad occuparsi di queste risorse (misurazione/studio/carotaggi/dragaggi) è l’Isme, un centro di ricerca interuniversitario per i sistemi integrati dell’ambiente marino, fondato nel 1999 dalle università di Genova e Pisa, che oggi include anche altri sette atenei, un laboratorio congiunto col Polo Nazionale della dimensione subacquea della Spezia, e la partecipazione di Fincantieri e Leonardo: attraverso robot come «Robust», Rov (Remotely operated vehicles) o Auv (Autonomous underwater vehicles), oppure i «gliver» (Auv con funzione di alianti), si raccolgono campioni, dati ambientali e immagini che vengono poi analizzati in superficie, ma i problemi che incontrano settori accademici e di nicchia come la subacquea e la robotica sottomarina (per quanto in forte espansione) sono gli alti costi, il libero consenso informato e preventivo delle popolazioni costiere interessate, ma anche e soprattutto l’impatto ambientale di breve e lungo periodo, i cui effetti complessivi e integrati sull’habitat naturale sono ancora ignoti.
Va infine detto che, quando si parla di impianti grandi e strategici per la produzione e lo stoccaggio di energia, le autorizzazioni sono sempre statali e qui entra in scena il tema cruciale del «permitting». Le commissioni Pnrr Priec e Via Vas vanno riequilibrate, anche grazie a un pacchetto di norme già approvate ma non ancora applicate, così come da dicembre 2023 l’istanza della Via dovrebbe nascere in digitale grazie a un nuovo portale finanziato per autotassazione dai soggetti stessi che richiedono la valutazione di impatto ambientale, il tutto per snellire, anche burocraticamente, la transizione green.
Alla vigilia di Cop 28, lo scrittore e attivista ambientale Jonathan Safran Foer parlava della necessità di una vera e propria rivoluzione guidata da leader politici in grado di operare scelte radicali, perché il tempo ce lo impone e non si può aspettare il ricambio generazionale in termini di leadership e, sebbene si possa concordare sul fatto che senza Usa e Cina, e quindi senza i loro fondi e peso internazionale, non si vada da nessuna parte, nemmeno in termini ambientali, e che quindi la retorica della piramide rovesciata e del potere agli ultimi è solo puro marketing evangelico, potrebbe essere proprio un rilancio della politica (non più ancella di scienza e tecnica) a guidare la sensibilità green dei prossimi decenni, non dico arrestando ma almeno rallentando il fatale countdown.
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