Estremo Oriente e intelligenza artificiale: benvenuti nell’ «Agoritmo»

da | Gen 30, 2024 | IN PRIMO PIANO

L’Estremo Oriente è da sempre frontiera tecnologica, esperimento sociale e banco di prova antropologico, come dimostra la migliore fantascienza (scritta e filmata), dal duo Philip Dick/Ridley Scott, coi paesaggi suburbani di Blade Runner che sembrano una Hanoi post-bellica in grado di coniugare chioschi di lugubre street food e risciò a navicelle spaziali e industria genetica, fino al «Nirvana» del nostro Salvatores.

Già Pechino etichettava nel «lontano» 2017 lo sviluppo dell’intelligenza artificiale come una priorità nazionale, I.A. che oggi lì vale 20 miliardi di dollari e che nei prossimi due anni potrebbe raddoppiare, in un paese che laurea ogni anno 1,4 milioni di ingegneri (6 volte la media Usa), di cui un terzo proprio nell’intelligenza generativa, e che si colloca al primo posto al mondo come utilizzatore di smartphone per pagare beni e servizi, ed è anche all’avanguardia nei software di riconoscimento vocale, negli assistenti virtuali e nello smercio e consumo di robot-impiegati.

Se è vero che le sanzioni commerciali degli Stati Uniti potrebbero frenarne la corsa, e che nell’agosto del 2023 la Cina ha pubblicato una bozza di regole per limitare l’uso del riconoscimento facciale, dei dati e dell’I.A. da parte delle aziende, così com’è vero che l’autorevole Merics ha scritto che «la Cina si è impegnata a vietare l’uso dell’I.A. per il social scoring», è altrettanto vero che non basta imporre ai fornitori di registrare i propri servizi e condurre una revisione della sicurezza prima di immettere i propri prodotti sul mercato, né fare in modo che i contenuti rispettino le regole della privacy o sulla proprietà intellettuale, o che abbiano etichette ben visibili, se creati artificialmente.

Questo perché, innanzitutto, in Cina l’I.A. deve riflettere «i valori fondamentali socialisti» e poi perché il suo utilizzo ha un ampio spazio di manovra nel campo della «sicurezza nazionale», termine che il Partito comunista interpreta in senso decisamente lato: le telecamere di sicurezza sono onnipresenti in molte città cinesi e i più grandi fornitori di sistemi di riconoscimento facciale hanno stretto partnership con le polizie locali per tracciare i dissidenti, oltre ai criminali, per non parlare dei sistemi a circuito chiuso in grado di riconoscere una faccia in sterminati archivi di immagini in due secondi netti.

Secondo i giornalisti del Wall Street Journal, John Chin e Liza Lin (autori del libro «Stato di Sorveglianza»), i sistemi di intelligenza artificiale «hanno fornito gli strumenti per mettere in pratica una visione utopica di controllo del Partito sulla vita delle persone», e il muro eretto dal Governo in termini di segretezza impedisce di sapere con certezza, come fu per i dati reali della pandemia, le dimensioni di tale «Stato di Sorveglianza».

Decisamente più crepuscolare, se non intimista, è ciò che sta invece accadendo in Giappone, dove una recente ricerca svolta dalla Soft-Two Co Ltd. ha rilevato (o meglio sarebbe dire ribadito, visto che la tendenza ha già qualche anno) l’avversione, nella fascia dei giovani fra i 20 e i 30 anni, alle conversazioni telefoniche: nessuno, anche in privato ma soprattutto in spazi pubblici come piazze, stazioni ferroviarie o aeroporti, utilizza il cellulare per parlare o inviare messaggi vocali.

Da un lato entra in campo la tradizionale riservatezza di un popolo che non ama sprecare parole inutili, e che difende gelosamente la propria privacy, prediligendo la messagistica istantanea di software come Line piuttosto che i social network, ritenendo oltretutto volgare il conversare in strada perché potrebbe arrecare disturbo agli altri, così come è addirittura vietato fumare in pubblico o mangiare, a meno di non trovarsi nei luoghi deputati allo street food.

Ecco che le lunghe tratte in metro o in treno divengono un’occasione per leggere, giocare, rilassarsi o parlare con qualcuno che si ritenga meritevole della propria attenzione, al punto che da una parte questa tendenza sembrerebbe una reazione sistemica all’invasività digitale, che ha portato i giovani a fare un passo indietro (basta ricordare i paesaggi metropolitani di fine millennio, letteralmente invasi di walkman e tascabili), mentre dall’altra potremmo trovarci di fronte a un’evoluzione antropologica che riserva ai social network e all’iperconnessione solo una limitata porzione di tempo, inaugurando dopo lo slow-food una sorta di slow-talking, ben ricordando la lezione del massmediologo McLuhan e cioè che «il medium è il messaggio».

Ma la «muon-sedai» (traduzione: generazione silenziosa) sceglie di non usare il telefono per chiamare o mandare vocali non solo per paura di disturbare o per rispetto della privacy, ma anche per altre due motivazioni: 1) parlando si rischia, soprattutto se la comunicazione è lavorativa, di far durare mezzora uno scambio che via mail durerebbe un paio di minuti, e quindi la «smartphobia» diviene anche un modo per guadagnare tempo per sé stessi, obliterando il vecchio sogno marxista di un a tecnologia in grado di affrancarci dai forsennati ritmi produttivi, moltiplicando il tempo libero; 2) ricevere o effettuare telefonate lavorative abbassa il livello di concentrazione e può portare a volte al fraintendimento, perché non entrano in vampo i segnali rilasciati dall’ambiente, la prossemica e la microcomunicazione inespressa che è così importante in Sol Levante, donando sempre più importanza agli appuntamenti dal vivo o sul Pc (Skype eccetera).

Già qualche anno fa Goleman, padre nobile e guru dell’intelligenza emotiva, ammoniva le più grandi aziende del pianeta a riservare parte del fatturato per far viaggiare e incontrare i supermanager invece di limitarne la comunicazione a conference call o alla semplice messagistica dei social, e questo non solo per un generico fattore di empatia ma perché, studi alla mano, se i manager si incontravano e conoscevano fisicamente, gli introiti a fine anno aumentavano considerevolmente.

Secondo un recente sondaggio di Pew Research, gli adulti che si informano regolarmente su Tik Tok negli Stati Uniti sono saliti dal 3% del 2020 al 14% del 2023 (dati che salgono al 32% nella fascia d’età fra i 18 e i 29), una tendenza che è ovviamente destinata a crescere e che si pone lungo la scia che da Facebook è passata a Instagram, quindi a Tik Tok e alla più recente Reel-Short, una piattaforma di show con microepisodi di due minuti circa: questo processo, che da un lato conduce alla semplificazione di dinamiche complesse, e quindi all’ignoranza e alla faziosità dualistica, e dall’altro porta a un problema cognitivo di scarsa concentrazione e incapacità di leggere in modo critico dinamiche più strutturate, si costituisce sull’essenza stessa degli algoritmi il cui obiettivo è massimizzare la permanenza di un utente su una piattaforma e che, giova ricordarlo, possono essere orientati.

La semplificazione della realtà e il primato dello stimolo e della novità sulla comprensione, complice lo sviluppo massivo dell’intelligenza artificiale, potrebbero portare alla sostituzione dell’Agorà, come spazio di confronto e luogo delle differenze, con l’«Agoritmo», e cioè un’arena dove prevalgono l’aggressività e le echo chambers, i contenuti estremi o eterodiretti.

La democrazia ha sempre mostrato il fianco a minacce latenti e progressive e c’è il rischio che, senza i giusti anticorpi culturali alla pervasività degli algoritmi, possa (s)crollare.

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