Scrivere una recensione de «I Predatori», primo lungometraggio di Pietro Castellitto risalente al 2020, proprio mentre nelle sale è uscita la sua seconda prova registica, il controverso e dibattuto «Enea», significa conficcare la penna nella materia viva della sua drammaturgia, visto che la vena autoriale del figlio d’arte non si esaurisce sulla pellicola ma sconfina anche nella letteratura («Gli Iperborei», Bompiani, 2021), come ha intelligentemente dichiarato il padre Sergio, definendo «Enea» e «I Predatori» non un dittico ma una trilogia inframezzata da un romanzo.
La sceneggiatura di questa visionaria opera prima è stata premiata nella sezione Orizzonti della 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ma Pietro ha anche incassato un David di Donatello e un nastro d’argento come miglior regista esordiente, suddividendo la reazioni al suo debutto in due perfette metà: gli entusiasti, ansiosi di smarcarlo dalle facili accuse di nepotismo e di calarsi in un film che si presta al feticismo della metanarrazione, e i detrattori, pronti a gridare al «raccomandato» e a enumerare i possibili plagi e le inesperienze di un lavoro sicuramente (per loro) provinciale e pretenzioso.
La cosa divertente (che con buona pace di D.F.Wallace andrebbe rifatta più e più volte, perché questo è un film che merita molte ri-visioni) è che probabilmente sono vere entrambe le opinioni perché «I Predatori» lascia presagire, col suo andamento concentrico e la scatola cinese di storie apparentemente disgiunte e che invece si chiudono tutte in un (im)perfetto cerchio, una visione innovativa di cinema, trasmettendoci soprattutto la sensazione di essere all’inizio di qualcosa di decisamente più esteso.
Il talento del giovane regista sta anche nel casting, visto che alla consumata esperienza di bestie da stile come Vinicio Marchionni e Popolizio, si coniuga la spietata lucidità di Antonio Gerardi (da anni credibilissimo, da una parte e l’altra della barricata criminale), la spontaneità di Manuela Mandracchia e Anita Caprioli, e la poliedricità del duo Montanini/Cassini, in grado di traslare la stand-up in personaggi di una complessità psicologica non indifferente, e va sottolineata la predilezione del filmaker romano per i comici, gli unici in grado secondo lui «di conoscere benissimo l’umiliazione».
Dirigere i grandi come fossero esordienti e viceversa sembra essere il segreto di questo tutt’altro che sprovveduto esordiente.
TRAMA
Il film inizia con un flash-forward che si perde in una nube di fumo, quindi, segue la vicenda di un truffatore che vende un orologio di scarso pregio per 1000 euro a un’anziana signora, spacciandosi per un amico del figlio. La trama, in un’Ostia satura disegnata dalla fotografia di Carlo Rinaldi, oppone due famiglie diversissime: da un lato i Pavone, ricchi borghesi e radical-chic col padre medico affermato e la madre regista impegnata, apparentemente ben radicati nei ruoli di potere che ricoprono ma in realtà frustrati, fedigrafi e cocainomani, più che altro spenti e annoiati, e dall’altro i Vismara, colorati sottoproletari di tendenze neofasciste che gestiscono un’armeria e il cui zio pregiudicato gestisce come marionette.
L’ago della bilancia di quest’incontro/scontro è proprio il giovane Federico Pavone (Pietro Castellitto), fanatico dell’opera di Nietzsche che, dopo essere stato estromesso dal progetto di riesumazione della sua salma, decide di compiere un gesto estremo entrando in contatto proprio con Claudio Vismara (Giorgio Montanini), così fra surreali dialoghi di matrice filosofica, sospetti tumori al cervello e un frammento rap recitato proprio dalla sorella reale di Pietro al ristorante durante il compleanno di un’ottuagenaria, si giunge all’inatteso e grottesco epilogo che svela la natura punk de «i Predatori», il cui conflitto non è di classe ma intergenerazionale: «siete i primi adulti stronzi della storia», grida Federico contro genitori e amici di famiglia.
C’ERA UNA (RI)VOLTA
Coi piano-sequenza traballanti, i primi piani a volte feroci e le riprese dall’alto, i bucolici campi-lunghi simili a giapponeserie avvelenate dalle pale eoliche, Castellitto traccia le coordinate di un cinema che pesca a piene mani dai D’Innocenzo e da Sorrentino, per niente timoroso di sperimentare in senso post-moderno uno stile narrativo che violenta ogni linearità cronologica, facendo leva su una comicità grottesca, lontana dagli ammiccamenti nazional-popolari ma anche dall’abusata satira sociale, poiché tutti i personaggi messi in scena sono impaludati in un’idea di ordine sociale in cui hanno smesso di credere da tempo.
Non c’è simpatia per il fascismo macchiettistico dei Vismara, che giocano a ping-pong su un tavolo decorato da una celtica, onorando in modo reverenziale la madre, ma con un dubbio culto della violenza che in fin dei conti non è figlio di nessuna ideologia ma solo del più bieco opportunismo, ma è tutt’altro che benevolo anche l’occhio che si posa sui Pavone, incapaci di comunicare in modo autentico sia coi propri genitori che coi propri figli, e pronti a coprire gli illeciti di quest’ultimi solo per tutelarne l’immagine (la loro e la propria), ma senza veramente chiedersi le ragioni dei loro gesti.
In questo potere, declinato in violenza e criminalità da parte dei Vismara, e raggiunto senza essere mai condiviso né esercitato virtuosamente da parte dei Pavone, si racchiude il senso de «I Predatori», una trasversale critica a una generazione (quella fra i 50 e i 70 anni) che gaberianamente ha perso, sigillandosi in un immobilismo adolescente, facile preda di vizi e scontate trasgressioni, ma incapace di una vera palingenesi.
Nel gesto di Federico, assurdo nel senso che Camus attribuiva a questo termine, e quindi letterario, vibra la stessa esigenza vitalistica del cinema di Castellitto, e cioè quella della rivolta: il paragone con La Grande Bellezza sorrentiniana non tiene dal punto di vista politico, perché il J’Accuse di Gep Gambardella è più colto e socialmente determinato mentre qui siamo di fronte a un attacco antropologico a tutto campo, anche se la mancanza di una trama uniforme e ben determinata avvicina le due prospettive secondo la coordinata che lo stesso regista dà del cinema d’autore, e cioè un qualcosa che nasce e si determina individualmente anche se poi si sviluppa, per sua natura intrinseca, collettivamente.
L’idea alla base del progetto nasce da una visita che Pietro ha fatto alla tomba di Nietzsche, a Rocken, quando pensò, trovandola isolata e incustodita, che chiunque avrebbe potuto trafugarne la salma o farla saltare in aria, ed è proprio nella filosofia del pensatore tedesco che si può ritrovare il salvifico individualismo cui fa riferimento il suo alter ego cinematografico, quando con dei finti baffi alla schiuma di Guinness rampogna il suo amico insegnante sul concetto assoluto che questi attribuisce al popolo, perché confonderebbe «l’antico con l’eterno».
Non è derivativo «I Predatori», tutt’al più mimetico, e la sua simulazione della realtà funziona più di una prospettiva neorealista, eleggendo una giovinezza sghemba e amorale a portatrice di vita e cambiamento, anche se attraverso gesti estremi e moralmente discutibili: il finale choccante funziona come trompe l’oeil di ideologie trapassate e defunte, i cui riti slegati dal reale sono ormai divenuti ridicoli, e il ridicolo è nemico non solo del comico ma anche di una corretta interpretazione della Storia.